Il rifiuto e l’oltrepassamento: la Seinsfrage e la passione per la libertà

di
Francesca Brencio

 

Non si raggiunge la cosa del pensiero mettendo in giro una serie di chiacchiere sulla “verità dell’essere” e sulla “storia dell’essere”. […]
Anche se non sono destinate all’eternità, le cose che hanno importanza arrivano ancora in tempo anche se arrivano all’ultima ora.
M. Heidegger

 

I. La domanda sul senso dell’essere e l’ostinazione heideggeriana

Nel 1962 Heidegger scrive:

Nietzsche sapeva bene che cos’è la filosofia. Questo sapere è raro. Solo i grandi pensatori lo posseggono nel modo più puro, nella forma di un costante domandare. La domanda fondamentale, in quanto domanda che fonda in modo autentico, in quanto domanda sull’essenza dell’essere, non è sviluppata come tale nella storia della filosofia. […] La domanda posta chiede che cos’è l’ente. Chiamiamo questa tradizionale “domanda capitale” [Hauptfrage] della filosofia occidentale la domanda guida [Leitfrage].Ma essa è soltanto la penultima domanda. Quella ultima, e cioè la prima, chiede: che cosa è l’essere stesso? Chiamiamo questa domanda, da sviluppare e da fondare per prima, la domanda fondamentale [Grundfrage] della filosofia, perché in essa soltanto la filosofia domanda del fondamento dell’essere in quanto fondamento e al tempo stesso cerca di ottenere, domandando, il proprio fondamento e si sfonda. Prima che questa domanda sia posta espressamente, la filosofia, se vuole fondarsi, deve sempre mettersi al sicuro percorrendo la via di una teoria della conoscenza o della coscienza, deve sempre restare su un cammino che, per così dire, si muove nello spazio antistante la filosofia e non gira al suo centro. La domanda fondamentale rimane estranea a Nietzsche come alla storia del pensiero a lui precedente[ref]M. Heidegger, Nietzsche, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. 31-77.[/ref].

La domanda fondamentale è la domanda sul senso dell’essere, è «il pensiero più grave della filosofia perché è il suo pensiero più intimo e più esteriore allo stesso tempo. È il pensiero con il quale essa sta e cade»[ref]Ibidemp. 34.[/ref]. Lo scopo dichiarato di Essere e tempo è quello di «riproporre il problema sul senso dell’essere (Die frage nach dem Sinn von Sein)»[ref]M. Heidegger,, Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 14.[/ref], problema che compare come un filo d’Arianna in tutta la meditazione del filosofo tedesco e che appare come l’unica domanda fondamentale della filosofia. Sein und Zeit inizia con una epigrafe che Heidegger prende a prestito dal Sofista di Platone, in cui Socrate dice ad un sofista: «È chiaro infatti che voi da tempo siete familiari con ciò che intendete quando usate l’espressione essente; anche noi credemmo un giorno di comprenderlo senz’altro, ma ora siamo caduti nella perplessità»[ref]Ivi.[/ref]. Heidegger scrive subito dopo:

È dunque necessario riproporre il problema sul senso dell’essere […]. Lo scopo del presente lavoro è quello dell’elaborazione del problema del senso dell’ “essere”. Il suo traguardo provvisorio è l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale[ref]Ivi.[/ref].

Il problema sul senso dell’essere si inscrive nel pensiero heideggeriano non come un problema filosofico tra molteplici problemi filosofici, ma come il problema per eccellenza della filosofia. Riproporre la Seinsfrage significa riformulare il problema della comprensione dell’essere stesso, oltrepassando la metafisica ed il suo pensare rappresentazionalistico che ha contribuito ad obliare la domanda fondamentale della filosofia.

La centralità di questo domandare, che solo l’esserci (il Dasein) riesce a porre in atto, chiama in causa tutta la storia della filosofia occidentale e della metafisica, la quale deve essere oltrepassata perché incapace di rispondere alla domanda fondamentale: che cos’è l’essere? Tale incapacità non è soltanto la caratteristica più propria del pensiero filosofico occidentale, ma si accompagna all’oblio dell’essere da parte della metafisica stessa, in modo destinale. E’ proprio il destino dell’essere che annovera, fra le sue molteplici figure, quella dell’oblio, creando una vera e propria fenomenologia dell’essere che progressivamente, nel corso della storia, manifesta ed occulta se stesso, facendo sì che «la questione dell’essere rimane sempre la questione dell’ente»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 284.[/ref].

Già in Essere e tempo Heidegger scriveva:

Benché la rinascita della metafisica sia un vanto del nostro tempo, il problema dell’essere è oggi dimenticato. Si crede infatti di potersi sottrarre ad una rinnovata γιγαντομαχία περί τῆς οὐσίας. Eppure non si tratta di un problema qualsiasi[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 53.[/ref].

La metafisica occidentale oblia la differenza ontologica e crea una sovrapposizione fra essere ed ente. Il tratto della semplice presenza, come caratteristica tipica con cui la metafisica pensa l’essere, è la grande impasse in cui tutta la filosofia è incappata.

L’interpretazione antica dell’essere dell’ente trae il suo orientamento dal “mondo” e dalla “natura” nel senso più ampio e che, di fatto, essa ricava dal “tempo” la sua comprensione dell’essere. La prova (…) di ciò è la determinazione del senso dell’essere come παρουσία, o di ουσία, che ha il significato ontologico-temporale di “presenzialità”. L’ente è concepito nel suo essere come “presenzialità”, cioè viene compreso in riferimento ad un determinato modo del tempo, il presente[ref]Ibidem, p. 44.[/ref].

Concependo l’essere come semplice presenza[ref]Cfr. M. Heidegger, Seminario di Zäringhen (1973)in Seminari, trad. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, p. 176.[/ref], la filosofia occidentale si ostina nel suo ambito con l’intenzione di spiegarlo senza capire che l’essere non si lascia rappresentare come un oggetto:

Finché la filosofia non fa che precludersi costantemente la possibilità di accedere alla cosa del pensiero, cioè alla verità dell’essere, essa è assicurata contro il pericolo di infrangersi sulla durezza della sua cosa. Per questo c’è un abisso tra il “filosofare” sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 296.[/ref].

Tesa a questa comprensione oggettivata di ciò che l’essere “rappresenta”, la metafisica occidentale oblia la differenza ontologica che la domanda sul senso dell’essere reclama, impedendo la reale comprensione di ciò che l’essere è; infatti, «l’essere stesso può illuminare – aprire la differenza in esso custodita di essere ed essente nella sua verità solo quando la differenza stessa espressamente accade»[ref]M. Heidegger, L’oltrepassamento della metafisica (1946), in Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 50.[/ref].

II. L’essere ed i “pensatori iniziali” 

Che cos’è l’essere di cui Heidegger parla?

Esso è se stesso […]. L’essere non è né un Dio né un fondamento del mondo[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 284.[/ref].

Come si legge nei verbali del seminario di Zurigo (1951)[ref]Cfr. M. Heidegger, Seminario di Zurigo, in Seminari, cit., pp. 206-207.[/ref], essere e Dio non sono identici; in Proscritto a “Che cos’è metafisica?” Heidegger dice che l’essere non è un prodotto del pensiero, ma il pensiero essenziale è un evento dell’essere[ref]M. Heidegger, Proscritto a “Che cos’è metafisica?”, in Segnavia, ed. cit., p. 262.[/ref], e nella Lettera sull’umanesimo Heidegger continua affermando che «in quanto tale l’essere è misterioso, la semplice vicinanza di un dominare non invadente»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, ed. cit., p. 286.[/ref].

È molto difficile trovare delle definizioni positive dell’essere nell’opera heideggeriana, poiché esso è per lo più definito attraverso via negationis. Ciò che colpisce della definizione che Heidegger dà dell’essere è la sua non concettualizzabilità, la sua inoggettivabilità, cioè il suo non ridursi ad oggetto, ad ente, a semplice-presenza[ref]Cfr. M. Marassi, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità originaria, in AA. VV., La differenza e l’origine, Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987, pp. 302-351.[/ref]. E proprio questo non ridursi a semplice-presenza fa dell’essere il fondamento infondato del discorso heideggeriano. Tuttavia tale non ridursi a concetto (di ciò che l’essere rappresenta) e il suo non ridursi ad oggetto non sono sinonimo di una insignificanza dal momento che non occorre confondere il senso [Sinn] con il significato [Bedeutung], cioè con ciò che è articolabile in una definizione.

La riflessione che Heidegger compie sul senso dell’essere conduce ad una via verso i pensatori iniziali dal momento che nelle loro parole è celato il senso più profondo della domanda: «La parola del pensiero iniziale custodisce “ciò che è oscuro”»[ref]M. Heidegger, Eraclito, trad. it. a cura di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 26.[/ref]. In questa parola è contenuto, pensato e nominato l’essere, sebbene essa rimanga per l’uomo contemporaneo, figlio della tecnica e della metafisica occidentali, la parola più estranea ed inascoltata.

Heidegger inizia proprio dal pensiero greco. A tal proposito Gadamer ha osservato che, pur avendo il pensiero greco svolto sempre un ruolo privilegiato di confronto con la filosofia tedesca, tuttavia egli osserva che «con Heidegger viene introdotto qualcosa di nuovo, una nuova prossimità e una nuova interrogazione critica degli esordi greci del filosofare»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, traduzione italiana a cura di R. Cristin e (solo per il cap. VIII) di G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987, p. 125.[/ref]. L’insistenza heideggeriana sulla necessità di tornare ai pensatori dell’inizio non va intesa come un ritorno sic et simpliciter ai Greci o ai presocratici, bensì deve essere compreso come un ritrovare nelle loro parole ciò che caratterizza la storia dell’essere entro cui noi ci inscriviamo, come “l’impensato”.

Cos’è questo impensato?

Nel corso del seminario tenuto a Friburgo nel semestre inverale del 1966/67, in collaborazione con Eugen Fink, Heidegger disse: «Faccio una proposta: l’impensato è l’ ἀλεθήια. Sull’ ἀλεθήια in quanto ἀλεθήια in tutta la storia greca non c’è nulla»[ref]M. Heidegger/ E. Fink, Colloquio intorno ad Eraclito (1977), trad. it. a cura di M. Nobile, Coliseum, Milano 1992, p. 301.[/ref]. L’ ἀλεθήια è forse la dimensione più propria con cui definire l’essere: essa è la svelatezza che si occulta, il non nascondimento (Unverborgenheit), l’apparizione fugace e nascosta; è il mostrarsi-occultarsi di ciò che l’essere è. L’ ἀλεθήια non ha nulla a che fare con il concetto di verità: piuttosto si configura come ciò che abbraccia convenientemente τἀ εόντα, non è una vuota apertura, ma il disvelamento che circonda l’εόν. L’ ἀλεθήια attesta che prima della verità del giudizio vi è quella delle cose, della loro presenza e del loro essere accanto all’uomo[ref]Cfr. C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, n. 31, 1952, p. 345 e s.[/ref].

Nel § 44b di Sein und Zeit, in relazione all’ ἀλεθήια si dice: «La traduzione con la parola verità, e più ancora le definizioni concettuali teoretiche di questa espressione, velano il senso di ciò che i greci, come comprensione prefilosofica, posero ovviamente a base dell’uso terminologico di ἀλεθήια. ἀλεθήια, pensata in quanto ἀλεθήια, non ha nulla a che fare con “verità”, ma significa disvelamento. Ciò che ho detto allora in Sein und Zeit va già in questa direzione. L’ ἀλεθήια come disvelamento mi ha sempre tenuto occupato, ma si frapponeva sempre la “verità”. L’ ἀλεθήια come disvelamento va nella direzione di ciò che è la Lichtung»[ref]M. Heidegger / E. Fink,  Dialogo intorno Eraclito, cit., p. 301.[/ref].

In una prima fase del suo pensiero (fino agli anni ’30), in questo contesto interpretativo, il pensiero greco è interpretato in maniera monolitica: Parmenide è chiamato in causa da Heidegger come l’iniziatore del predominio della considerazione ontica su quella ontologica, inaugurando la strada della soggettività, ed Aristotele come colui che porterà a termine questo predominio con l’ ουσία. Tuttavia, intorno agli anni ’30 l’interpretazione della grecità muta di segno in Heidegger tanto che egli non parlerà più di pensiero dell’inizio in termini uniformi bensì leggerà in esso delle dicotomie, arrivando ad individuare alcuni filosofi che hanno pensato l’origine (l’essere) ed altri che hanno aperto la strada alla metafisica come oblio dell’essere. In questa nuova cornice interpretativa, tra i pensatori dell’origine capaci di aver pensato l’essere,  ora Heidegger annovera proprio Parmenide nei termini di colui che ha custodito l’essere nella enigmaticità delle sue parole. È da qui che egli attingerà per formulare il discorso sull’ ἀλεθήια. Tra coloro, invece, che hanno inaugurato la strada della metafisica come oblio dell’essere Heidegger pone Platone ed Aristotele[ref]Cfr. L. Ruggiu, Heidegger e Parmenide, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, Marietti, Casale Monferrato 1991, pp. 49-81.[/ref].

A tal proposito Gadamer dice: «Tutte le successive pubblicazioni di Heidegger concernenti il suo rapporto con i Greci, iniziate con il saggio su Anassimandro apparso in Sentieri interrotti, non condividono più nella stessa misura la fusione di orizzonti che negli studi precedenti era stata spinta fin quasi all’identificazione»[ref]H. G.Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., pp. 126-127.[/ref]. Heidegger intese il rapporto con i Greci non solo come un ripercorrere la storia della filosofia compresa nei termini di apparizione ed oblio dell’essere, ma anche (e soprattutto) come un colloquio profondo ed intimo. Egli «nei Greci trovò fin dall’inizio i suoi veri interlocutori. Essi richiedevano a lui costantemente di pensare in modo ancora più greco e di trovare e “ripetere” in loro il suo proprio interrogare»[ref]Ibidem, p. 126.[/ref]. Se è vero che Heidegger usava i testi presocratici con una certa violenza[ref]Ibidem, p. 128.[/ref], è altresì vero che fu dallo studio di Aristotele[ref]Ivi.[/ref] che l’esperienza iniziale del pensiero greco gli si rivelò in tutta la sua portata; proprio Aristotele gli servì come alleato contro Platone e contro le sue posizioni[ref]Cfr. H. G.Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., pp. 71-82.[/ref]:

Hegel dice della filosofia dei Greci: “In essa si può trovare soddisfazione solo fino a un certo grado” e cioè la soddisfazione dell’impulso dello spirito alla certezza assoluta. Questo giudizio di Hegel su ciò che è insoddisfacente della filosofia greca è pronunciato a partire dal compimento della filosofia. Nell’orizzonte dell’idealismo speculativo, la filosofia dei greci rimane nel “non ancora” del compimento. Se però ora prestiamo attenzione all’enigma dell’ ἀλεθήια che domina sull’inizio della filosofia greca e sul corso dell’intera filosofia, allora anche al nostro pensiero la filosofia dei greci si mostra in un “non ancora”. Solo che questo “non ancora” è il “non ancora” dell’impensato, non un “non ancora” che non ci soddisfa, ma un “non ancora” al quale noi non bastiamo e che non soddisfiamo[ref]M. Heidegger, Hegel e i Greci, in Segnavia, cit., p. 391.[/ref].

Un altro termine attraverso il quale Heidegger tenta di spiegare l’essere è offerto dalla φύσις. Essa indica “ciò che sboccia da sé”, esprimendo la spontaneità dell’aprirsi, della presenza indipendente della soggettività. La φύσις è una delle figure dominanti del weg heideggeriano:

Nella Fisica, Aristotele concepisce la φύσις come l’enticità di un particolare ambito dell’ente, quello degli enti naturali […]. Se non che il trattato che compare nel libro G della Metafisica […] dice esattamente il contrario: la φύσις (l’essere dell’ente come tale nella sua totalità) è φύσις τις – una certa qual φύσις […]. in questo inizio l’essere è pensato come φύσις [ref]M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della φύσις, in Segnavia, cit., p. 253 e s.[/ref].

 Se la φύσις ha qualche possibilità di nominare l’essere nei termini di “la presenza di ciò che appare”[ref]Cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? (1952), trad. it. a cura di U. M. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1972, vol. II, pp. 93 e ss.[/ref], il suo “sbocciare” genera la molteplicità degli enti – attraverso quello stesso procedimento che Eraclito chiamava πόλεμος – e tramite questi appare entificata. La φύσις porta l’essere al di là della metafisica; la sua caratteristica è duplice: essa è l’Aufgehen, il dispiegarsi, e la Beraubung, il trattenere in sé.

III. Dal non-nascondimento alla correttezza, verso il fondamento

La riduzione metafisica dell’essenzialità dell’essere è fatta risalire ai pensatori successivi ai presocratici, a coloro che hanno interpretato la verità come conformità tra la sintesi del conoscere e la sintesi dell’ente. Platone, secondo Heidegger, ha interpretato il concetto di svelatezza, di non nascondimento, cioè il concetto di ἀλεθήια, come “correttezza” (ὀρθότης), attribuendo così al non nascondimento una dimensione ontica, oggettiva[ref]Cfr. M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia. Sezione di “Problemi della Logica” (1984), trad. it. a cura di U. M. Ugazio, Mursia, Milano 1988, pp. 48-51.[/ref]. Se la svelatezza si fa correttezza, essa è spinta tra la molteplicità degli enti e la verità non è più la manifestazione di ciò che si nasconde, ma il corretto riferimento tra ciò che nel mondo sensibile si percepisce e l’idea corrispondente nell’Iperuranio; è così che la verità si pone sotto il giogo dell’idea – e con essa anche il linguaggio[ref]Cfr. U Galimberti, Linguaggio e civiltà. Il linguaggio occidentale nella lettura di Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977, pp. 125 e ss.[/ref] – e l’essere sotto quello del dover essere, cioè dei valori che ne determinano la bontà. Ma la verità così intesa non fa altro che trascrivere in termini di semplice-presenza ciò che in realtà non lo è, facendo diventare l’essere una παρουσία dell’ente stesso.

Anche Aristotele e Tommaso d’Aquino sono da Heidegger considerati come interpreti della verità nei termini di ὀμοίωσις; è stato Aristotele a dire che «il vero e il falso non sono nelle cose […] ma solo nel pensiero»[ref]Aristotele, Metafisica, trad. it. a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1993, E4, 1027b, 25-27, p. 281.[/ref] aprendo la strada al principio dell’adeguatio intellectus et rei, che nel medioevo ha trovato tanta fortuna e che ha avuto la sua formulazione più compiuta con Tommaso[ref]Cfr. Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei contra errorem infidelium, in Summa contra gentiles, Marietti, Casale Monferrato 1961, vol. II, libro I, cap. 4, pp. 5 e ss.[/ref]. Questo principio, che ormai ha totalmente dimenticato e abbandonato l’originarietà dell’ ἀλεθήια, nel pensiero moderno sarà preso da Cartesio come incipit della Regula VIII nell’opera Regulae; lì si legge: «Veritatem proprie vel falsitatem non nisi in solo intellectum esse posse»[ref]R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, in Discorso sul metodo. Regole per la ricerca della verità, trad. it. a cura di G. Galli, Laterza, Bari 1968, p. 33.[/ref]. E’ così che il non nascondimento della verità viene smarrito lungo la via del pensiero occidentale, delineando la verità nei termini di conformità (Übereinstimmung) del conoscere, cioè di rapporto fra l’atto predicativo con l’oggetto del giudizio. La cosa, per essere detta vera, deve uscire allo scoperto, deve venir fuori dal nascondimento e porsi nella sintesi di soggetto e predicato. Così concepita, la verità diventa una specie di aggiunta dell’essere in ambito logico (nei termini di conformità del giudizio) o in ambito metafisico (nei termini di conformità alle idee separate o in Dio).

Su questa via, fatta di sovrapposizioni e smarrimenti, si pone anche la definizione del pensare non più come νοεῖν o come λέγειν, ma come l’attività sintetica a priori del soggetto, che in Kant trova il suo magistrale compimento come con-cepire. A pensiero diventato ormai rappresentazione e giudizio è conforme il principio omne ens habet rationem; nihil est sine ratione: nessun ente si sottrae alla legge del fondamento. Proprio la riflessione sul fondamento conduce Heidegger a tornare a Leibniz e lo conduce a porsi una domanda: il principio di ragion sufficiente ha una ragione? Il principio di ragione parla della totalità dell’essente: esso dice omne ens, quindi parla dell’essente nella sua totalità, dunque dell’essere.

Bisogna ora veder il fatto che, e il senso in cui, qualcosa come il fondamento appartiene all’essenza dell’essere. Essere e fondamento si coappartanegono. Dalla sua appartenenza all’essere in quanto essere, il fondamento riceve la sua essenza. Viceversa, è dall’essenza del fondamento che l’essere domina in quanto essere. Fondamento ed essere sono lo stesso, ma non l’identico, come indica già la differenza tra i termini “essere” e “fondamento”. L’essere è nella sua essenza fondamento. Per questo l’essere non può avere ancora un ulteriore fondamento che dovrebbe fondarlo. Quindi il fondamento rimane via (Weg, ab) dall’essere. Nel senso di un tale rimanere-via (Ab-bleiben) del fondamento dall’essere, l’essere “è” il fondo abissale, l’Ab-grund. In quanto l’essere come tale è in sé fondante, rimane esso stesso privo di fondamento. L’essere non rientra nel dominio della tesi del fondamento, bensì solo l’ente[ref]M. Heidegger, Il principio di ragione (1957), trad. it. a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1991, p. 94.[/ref].

 Heidegger insiste costantemente sulla differenza che separa il versante logico del principium rationis da quello ontico del medesimo e fa discendere la logica dalla metafisica, conferendo a quest’ultima un primato sulla prima. Come lo aveva pensato Leibniz, il principio di ragione aveva una topologia tale da caratterizzarsi in tre livelli: quello della soggettività, quello gnoseologico e quello divino (Dio), fondamento infinito dei primi due. Secondo Heidegger tra il principium rationis e Dio esiste una circolarità: il principio è valido in quanto esiste Dio che lo conferma e lo concretizza; e Dio esiste proprio perché il principio è valido. Si è in presenza di un principio che si muove in circolo ed il cui orizzonte di rimando è quello ontico-teologico, ma non ontologico.

Il principio di ragione costituisce per Heidegger il primo pilastro della metafisica e altresì la prima formulazione della differenza ontologica. Il principio di ragione rimane fuori dal luogo originario di indagine: esso sta sulla soglia, non al suo interno, facendo sì che il problema dell’essere rimane è senza fondamento. Tuttavia, c’è anche un senso ulteriore per il quale l’essere è senza fondamento e, se si vuole, tale senso è quello che più da vicino caratterizza la meditazione heideggeriana:  l’essere in quanto tale è senza fondamento, cioè Ab-Grund, in quanto non fondato. L’essere è detto Ab-Grund invece proprio mentre si predica (nel senso di predicato) il suo essere la stessa cosa con il Grund. Il principio di ragion sufficiente non vale per l’essere perché l’essere stesso è la ragione di se medesimo: esso è co-originario al fondamento e nello stesso tempo come radicalmente differente ad esso. L’essere è un abisso senza fondo che la metafisica non è riuscita a pensare.

IV. Il fondamento – ovvero della libertà

Il problema del principio di ragion sufficiente è strettamente legato al tema del fondamento, che tanto spazio ha occupato nella speculazione heideggeriana, e alla questione del rapporto tra essere ed ente, con il conseguente accento sulla libertà dell’uomo – cioè sulla libertà del Dasein. Il fondamento secondo Heidegger non va trovato nel principio di ragione, poiché esso è pre-logico:

Il “principio di ragione”, come “principio supremo”, sembra escludere fin dall’inizio che vi sia un problema del fondamento. Ma il “principio di ragione” dice qualcosa sul fondamento come tale? Come principio supremo, svela forse l’essenza del fondamento? Nella sua formulazione più comune e più breve, il principio dice: nihil est sine ratione, niente è senza fondamento, mentre nella sua formulazione positiva: omne ens habet rationem, ogni ente ha un fondamento. Il principio fa un’asserzione sull’ente, e precisamente in riferimento a qualcosa come il suo “fondamento”. Ma in che cosa consista l’essenza del fondamento, in questo principio non è specificato. Anzi per questo principio, l’essenza del fondamento è presupposta come una “rappresentazione” per sé evidente. Ma anche per un altro verso il “supremo” principio di ragione fa uso dell’essenza non chiarita del fondamento; infatti il carattere specifico di principio di questo principio in quanto principio “fondamentale”, principium grande (Leibniz), può essere determinato in modo originario soltanto in riferimento all’essenza del fondamento. Occorre pertanto mettere in questione il “principio di ragione” sia per il modo in cui si pone, sia per il “contenuto” che pone, se si vuole che, al di là di una “rappresentazione” indeterminata e generica, l’essenza del fondamento diventi un problema […]. Anche se non getta alcuna luce sul fondamento come tale, il principio di ragione può tuttavia servire come punto di partenza per una prima connotazione del problema del fondamento[ref]M. Heidegger, L’essenza del fondamento, in Segnavia, cit., pp. 82-84[/ref].

 Sull’essenza del fondamento fu pubblicato due anni dopo Essere e Tempo (quindi nel 1929, lo stesso anno in cui egli pronunciò il discorso d’apertura per quell’anno accademico all’Università di Freiburg, la prolusione Che cos’è metafisica?), e in quell’opera Heidegger partì dall’analisi del principio di ragion sufficiente di Leibniz, o se si vuole, dal principio di causalità, per discutere nuovamente della differenza ontologica. Prendendo le distanze dalla tradizione filosofica per la quale il vero sapere si configura come sapere di cause (vere scire est per causas scire), Heidegger si interessa del fondamento della differenza ontologica chiamando in causa la trascendenza dell’esserci: «Il problema dell’essenza del fondamento diventa il problema della trascendenza»[ref]Ibidem, p. 91.[/ref]. La trascendenza indica, in questo contesto, ciò che vi è di più proprio dell’essere umano, come ciò che lo costituisce e fonda ogni possibile comportamento e atteggiamento. La trascendenza è, in altre parole, ciò che costituisce l’ipseità (Selbstheit)[ref]Cfr. Ibidem, p. 95[/ref], ciò che pone l’esserci nella condizione di oltrepassare costantemente la natura[ref]Cfr. Ibidem, p. 95-97[/ref], gli enti intramondani e il mondo[ref]Cfr. Ibidem, p. 99-118, con particolare attenzione alla nota 59 presente nell’edizione Adelphi (p. 118).[/ref] (che Heidegger chiama “l’in vista di”) per affermare la propria libertà.
Scrive Heidegger:

L’oltrepassamento verso il mondo è la libertà stessa. Ne consegue che la trascendenza non si imbatte nell’ “in vista di” (il mondo – n.d.a.) come in un valore o in un fine per sé sussistenti, ma è la libertà, proprio in quanto libertà, a pro[ref]Corsivo di Heidegger nell’edizione Adelphi.[/ref]-porre a se stessa l’ “in vista di” […]. Solo la libertà può lasciare che all’esserci  un mondo si imponga (walten) e si faccia mondo (welten)[ref]Anche qui corsivo di Heidegger, come nella riga seguente.[/ref]. Il mondo, infatti, non è mai, ma si fa mondo[ref]Ibidem, p 120.[/ref].

L’esserci non è fondato né autofondato: non è un Io alla maniera idealistica capace di concepire e porre il non-io e la realtà tutta. Piuttosto, l’esserci è la trascendenza stessa che si manifesta attraverso il suo superamento e, per mezzo di essa, fa il mondo, lo rende possibile.  Come Sein und Zeit aveva già chiarito, allorquando Heidegger spiegava la deiezione, l’essere-per-la-morte e la progettualità, l’esserci  reclama una libertà appassionata ed affrancata dal mondo la quale, solo e proprio in virtù di tale affrancamento, permette al mondo di essere possibile. La libertà dell’esserci (cioè dell’uomo), corre costantemente il rischio di essere smarrita e di far vacillare l’esserci nelle sue scelte, di imprigionare il mondo in una realtà che esautori la possibilità della sua esistenza, una libertà che ammette al suo interno lo smarrimento e l’errore. In antitesi con la tesi sartriana per la quale l’uomo è condannato alla libertà, Heidegger afferma che è la libertà ad avere l’uomo. Come già indicato in Sein und Zeit insegna, l’uomo  è un esserci che “ha da essere”, l’unico ente capace di progettarsi e di farsi carico del proprio “poter essere”, cioè della propria libertà, parola che nello scritto del ’27 è prudentemente evitata e sostituita con sinonimi: «apertura», «risolutezza» o «progetto». Solo con il confronto con Kant e con Schelling (durante il corso tenuto nel 1936) Heidegger maturerà un’interpretazione della libertà nei termini di un fenomeno generato dalla coappartenenza di essere e uomo, sia nei termini di  «libertà da» ma anche di «libertà per».

In tal senso, la libertà quale emerge dallo scritto del ’29, è ancora più originaria di ogni decisione che spetta al Dasein poiché il suo Grund è nell’Abgrund, cioè nello stesso fondamento che le viene tolto. La libertà dell’esserci può essere esperita e compresa nella sua autentica abissalità:

La libertà come trascendenza non è tuttavia solo una particolare “specie” di fondamento, ma l’origine del fondamento in generale. La libertà è libertà di fondamento (Freiheit zum Grunde)[ref] Ibidem, p. 121 – corsivo di Heidegger.[/ref].

In questo senso l’ontologia si fa strumento di conoscenza della finitezza dell’uomo e si flette in direzione di una nuova soggettività che fa del trascendentale kantiano un momento da superare[ref]Cfr. F. Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013.[/ref]. La citazione contenuta in Sein und Zeit che recita “Più in alto della realtà si trova la possibilità” (Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit) sembra indicare proprio l’apertura ad una dimensione della soggettività ancora più radicalmente libera di quanto la Daseinsanalyse indichi; forse questo è quanto due anni dopo, nel Kantbuch, egli affiderà al primato dell’immaginazione trascendentale sull’intelletto.

Il Kantbuch di Heidegger, infatti, ripropone la domanda sull’essere al fine di comprendere correttamente il suo rapporto con il tempo, ripensando radicalmente la finitezza dell’essere dell’esserci e mettendo in questione questa stessa in quanto possibilità per lo svelamento della finitezza dell’essere stesso. Heidegger intende andare oltre Kant: questo significa concretamente radicalizzare la struttura trascendentale della soggettività, piegandola alle esigenze speculative del suo pensiero. In Kant e il problema della metafisica (1929) Heidegger vuole liberare i germi potenziali che costituiscono la possibilità della conoscenza ontologica, cioè la trascendenza dell’esserci. Come è noto, con questa sua impostazione speculativa egli critica la posizione postkantiana della scuola di Marburgo e più in generale la tendenza a far confluire e dissolvere l’estetica trascendentale nella logica trascendentale. Heidegger legge la Critica della ragione pura come una tematizzazione della ragione umana finita: questo significa contrapporre alla lettura dei marburghesi un ripensamento fenomenologico. Per riassumere, si può affermare che tra pensiero ed intuizione occorre che ci sia una intrinseca affinità affinché il pensiero possa unirsi all’intuizione stessa, quindi una sintesi che permetta all’oggetto di divenire manifesto; Heidegger nomina questo processo sintetico “sintesi veritativa” (veritative Synthesis): una sintesi capace di integrare al suo interno la sintesi predicativa e la sintesi apofantica. La sintesi veritativa è il rendere manifesto in qualità di oggetto l’ente incontrato, mostrarlo nella sua verità: l’oggetto, in quanto Gegen-stand, può darsi esclusivamente per la conoscenza finita. Conoscere ciò che si mostra significa nella lettura hiedeggeriana conoscere il fenomeno, ovvero conoscere l’ente stesso, la cosa in sé.

Questa lettura fenomenologica del fenomeno implica una rielaborazione mutata del concetto stesso di fenomeno: in esso non si conosce solo l’oggetto ma l’ente stesso, o meglio, in generale la finitezza. L’esserci, in quanto finito, comprende il suo proprio essere progettandolo nell’orizzonte temporale di trascendenza e in questa progettualità si rivela la stessa finitezza irradiandosi nella libertà. Proprio a partire da questa finitezza, il Dasein ridesta l’originaria domanda metafisica producendo un’inversione nell’algebra della conoscenza: l’ontologia si manifesta come ratio cognoscendi della finitezza e la finitezza come la ratio essendi dell’ontologia.

V. La soggettività moderna: il rifiuto e lo smarrimento

Nel pensiero metafisico accade la riflessione sull’ente e sulla sua conoscibilità: il pensiero diventa quindi un pensiero dell’ente e non più dell’essere. Questa caratteristica è ancora più accentuata nell’epoca moderna dove la certezza del rappresentare l’ente costituisce la verità intorno all’ente. È con Cartesio che inizia l’interpretazione dell’uomo come subjectum[ref]Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri Interrotti, cit., pp. 84 e ss.; inoltre, M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 129 e ss.[/ref], la quale  crea un’antropologia del pensiero in base a cui sull’uomo – inteso come soggetto (subjectum) e non come oggetto (ὑποκείμενον) – si fonda ogni altro ente e da esso trae il proprio principio di legittimazione. La parola subjectum pretende di tradurre il greco ὑποκείμενον ma in realtà tradisce il senso più profondo contenuto in questa parola. Per il greci, ὑποκείμενον indicava

ciò che sta al fondo e che precede ogni determinazione […]. L’interpretazione occidentale dell’essere dell’ente comincia con l’assunzione di termini greci nel pensiero romano-latino; ὑποκείμενον diviene subjectum, ὑποστάσις diviene substantia, συμβεβηκός diviene accidens. Questa traduzione latina dei termini greci non è per nulla quel processo “innocuo” che è ancor oggi ritenuto. Dietro questa traduzione letterale si nasconde il tradursi in un modo di pensare diverso dalla sperimentazione greca dell’essere […], la mancanza di base del pensiero occidentale incomincia proprio con questo genere di traduzione[ref]M. Heidegger, L’origini dell’opera d’arte, in Sentieri Interrotti, cit., p. 8 e s.[/ref]

Il subjectum, la certezza fondamentale, è l’oggettività; l’essere soggetto dell’uomo, in quanto essere pensante è posta al servizio del subjectum:

In quanto subjectum l’uomo è la co-agitatio dell’ego. L’uomo fonda se stesso come criterio di ogni misura con cui viene misurato e commisurato (calcolato) ciò che deve valere come certo […], come vero […], come essente[ref]M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri Interrotti, cit., p. 92.[/ref].

La co-agitatio dell’io è la coscientia, che però è già in se stessa un volere, un velle; la co-agitatio rappresenta la volontà nella sua essenza. Nell’opera del 1962, il Nietzsche, si legge:

Nella metafisica moderna ciò si manifesta nel fatto che la certezza di tutto l’essere e tutta la verità viene fondata sull’autocoscienza del singolo io: ego cogito ergo sum. Il trovarsi lì nel proprio stato, il cogito me cogitare, dà luogo anche al primo “oggetto” assicurato nel suo essere. Io stesso e i miei stati siamo l’ente primo e autentico[ref]Ivi, p. 91 e s.[/ref].

La metafisica moderna inizia a concepire l’io, il soggetto, come la certezza fondamentale su cui si articola tutto il discorso filosofico; l’io diventa così il nucleo tematico che garantisce la fondazione autentica di ogni discorso teoretico; l’antropologia pretende di trascrivere in termini di ad essa consoni (il cogito di Cartesio, l’Io penso di Kant, la volontà di Schelling e Schopenhauer, la volontà di potenza di Nietzsche) tutto il discorso ontologico.

La filosofia è diventata antropologia, e su questa via si è trasformata in una preda per la discendenza della metafisica, cioè per la fisica intesa nel suo senso più vasto, che comprende la fisica della vita e dell’uomo, la biologia e la psicologia. Divenuta antropologia, la filosofia stessa perisce a causa della metafisica[ref]M. Heidegger, L’oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, cit., p. 56.[/ref].

Sin dagli anni ’30 Heidegger sviluppa nei suoi corsi universitari un lavoro storiografico volto a delineare la storia della metafisica come storia dell’oblio dell’essere; passando attraverso Cartesio, Leibniz, Kant, l’idealismo tedesco (Schelling ed Hegel) e Nietzsche, Heidegger legge tutta la storia della filosofia occidentale come storia della metafisica, cioè come storia del lungo oblio dell’essere. È con lo studio di Schelling e con la sua metafisica della volontà che Heidegger legge la filosofia a seguire come uno sviluppo del passaggio dalla co-agitatio dell’io alla volontà di potenza nietzscheana. Proprio Nietzsche è considerato da Heidegger come colui che porta a compimento la metafisica occidentale rimanendo tuttavia anche egli inscritto all’interno di questa storia.

            E’ su queste preliminari considerazioni interpretative che va compresa anche la questione dell’umanesimo. Nel 1946 Heidegger scrisse una lettera all’amico Jean Beaufret, pubblicata l’anno successivo (1947) e conosciuta come Lettera sull’umanesimo. Questa lettera è considerata da molti come una specie di riabilitazione teoretica della figura di Heidegger dopo i fatti inerenti al rettorato del 1933 ed è ricca di riflessioni su molteplici temi. La lettera nasce da una domanda posta ad Heidegger dall’amico Beaufret su come fosse ancora possibile trovare un senso del termine umanesimo. La risposta a questa domanda inizia con una presa di posizione da parte di Heidegger nei riguardi della tecnica e dell’agire, per poi arrivare a domandare se sia necessario ancora attribuire una qualche valenza al termine umanesimo. Heidegger è dell’avviso che la tradizione latina e quella umanistica in particolare abbiano solo accentuato il carattere di povertà della Seinsfrage, cioè abbiano ancora una volta posto la domanda sull’ente e non sull’essere, ponendo al centro della riflessione filosofica la moderna antropologia.
Scrive Heidegger:

Ogni umanesimo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica del genere. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppone, sapendolo o non sapendolo, l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della verità dell’essere[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 275.[/ref].

Heidegger critica senza indugio ogni sorta di umanesimo poiché in esso ciò che il pensiero domanda è ancora l’essere dell’ente e non l’essere tout court, facendo sì che l’umanesimo si inscriva ancora all’interno della metafisica e come tale sia degno di essere oltrepassato.

L’oblio dell’essere e della differenza ontologica, che anche nella Lettera viene nominato, rimane interno all’essere stesso e destinale alla sua storia, poiché l’oblio dell’essere è un momento della storia dell’essere stesso. In tal senso Heidegger insiste sul fatto che lo scandalo della filosofia moderna non sia tanto nel fatto che essa non pensi l’essere nella modalità che più le appartiene – dal momento che l’oblio stesso è una modalità della storia dell’essere – ma che essa non rammenti questi oblio. In tal senso, la filosofia moderna dimentica la propria dimenticanza, dimentica cioè di dimenticare, ed il dimenticato (in questo caso la differenza ontologica) non viene richiesto come contenuto del dimenticare, ma rimane al di là della stessa dimenticanza. È in virtù dell’oblio dell’oblio, della dimenticanza della dimenticanza che il pensiero dell’essere diventa il pensiero più sconosciuto della filosofia moderna[ref]Si vedano a tal proposito i preziosi volumi Überlegungen II-VIÜberlegungen VII-XI e Überlegungen XII-XV, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M., 2014, in cui Heidegger torna con insistenza sul tema dell’oblio dell’essere, del destino della filosofia occidentale, della necessità di una filosofia inattuale, della centralità della Seinsfrage ed argomenti simili, con ampi passaggi su Nietzsche, Leibniz, Aristotele, Husserl, ed altri ancora. L’importanza di questi tre testi eccede di gran lunga il tema dell’antisemitismo e dell’adesione al nazismo, che sembrano essere i soli ad aver catalizzato l’attenzione degli interpreti di Heidegger. La loro ricchezza e complessità dovrebbe configurarsi come la fonte principale su cui insistere per capire il pensiero di Heidegger nel corso della sua formazione. Sui temi sovra menzionati – l’adesione al nazionalsocialismo da parte di Heidegger, il suo antisemitismo, e la politica – se ne renderà ragione nelle prossime uscite. [/ref].

L’ultima figura attraverso la quale Heidegger penserà l’essere è quella dell’Ereignis ma di essa si tratterà altrove.

 

Bibliografia delle opere citate

Opere di Martin Heidegger:
Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976;
Nietzsche, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994;
Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987;
Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976;
Seminari, trad. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992;
Eraclito, trad. it. a cura di F. Camera, Mursia, Milano 1993;
Che cosa significa pensare? (1952), trad. it. a cura di U. M. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1972, vol. II
Domande fondamentali della filosofia. Sezione di “Problemi della Logica” (1984), trad. it. a cura di U. M. Ugazio, Mursia, Milano 1988;
Il principio di ragione, trad. it. a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1991;
Sentieri Interrotti, trad. it. a cura di P. Chiodo, La Nuova Italia, Firenze 1997;
Überlegungen II-VI, Überlegungen VII-XI e Überlegungen XII-XV, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M., 2014;
M. Heidegger/E. Fink, Colloquio intorno ad Eraclito (1977), trad. it. a cura di M. Nobile, Coliseum, Milano 1992, p. 301.

Altre opere citate e studi sul tema:

AA. VV., Heidegger e la phénoménologie, Vrin, Paris 1990
Aristotele, Metafisica, trad. it. a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1993
F. Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013
F. Chiereghin, Einführung, Ueberwindung, Verwindung: tre modi di rapportarsi alla metafisica in Heidegger, in AA. VV., La metafisica e il problema del suo superamento, a cura di Scuola di Perfezionamento in Filosofia dell’Università degli Studi di Padova, Libreria Gregoriana, Padova 1985
P. Chiodi, L’ultimo Heidegger, Taylor, Torino 1960
G. Chiurazzi, Hegel, Heidegger e la grammatica dell’essere, Laterza, Roma-Bari 1996
A. Colombo, Martin Heidegger. Il ritorno all’essere, Il Mulino, Bologna 1964
R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, in Discorso sul metodo. Regole per la ricerca della verità, trad. it. a cura di G. Galli, Laterza, Bari 1968
C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, n. 31, 1952
Id., Dell’essere, dell’ente, del nulla, in Tomismo e pensiero moderno, Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969
G. FIGAL, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, Il Melangolo, Genova 2007
U. Galimberti, Linguaggio e civiltà. Il linguaggio occidentale nella lettura di Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977
H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger (1983), trad. it. a cura di R. Cristin e (solo per il cap. VIII) di G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987
J. B. Lotz, Identità e differenza in un confronto critico con Heidegger, in AA. VV., La differenza e l’origine, Edizioni del Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987
J. Malpas, The Trascendental Heidegger, Stanford Univ. Press 2007;
M. Marassi, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità originaria, in AA. VV., La differenza e l’origine, Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987
J. L. Marion, L’essere e la rivendicazione, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, a cura di M. Ruggenini, Marietti, Casale Monferrato 1991
A. Massolo, Heidegger e la fondazione kantiana, in Ricerche sulla logica hegeliana, Marzocco, Firenze 1950
R. Morani, Essere, fondamento e abisso. Heidegger e la questione del nulla, Mimesis Edizioni, Milano 2010
L. Pareyson, Heidegger: la libertà e il nulla, in “Annuario filosofico”, n. 5, 1989
P. Rebernik, Heidegger interprete di Kant. Finitezza e fondazione della metafisica, ETS, Pisa 2006
M. Ruggenini, L’uomo e la differenza, in “Archivio di Filosofia”, n°. 1-3, 1989
L. Ruggiu, Heidegger e Parmenide, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, Marietti, Casale Monferrato 1991
Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei contra errorem infidelium, in Summa contra gentiles, Marietti, Casale Monferrato 1961, vol. II.
G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Casale Monferrato 1989
C. Vigna, Sulla metafisica di Heidegger, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, a cura di M. Ruggenini, Marietti, Casale Monferrato 1991
P. Vinci, Soggetto e tempo. Heidegger interprete di Kant, Bagatto Editore, 1988
V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976
F. Volpi, Alle origini della concezione heideggeriana dell’essere: il trattato Vom Sein di Carl Braig, in “Rivista critica di storia della filosofia”, n. 35, 1980

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