Martin Heidegger e il nostro tempo

di
Francesca Brencio

Numquam se plus agere quam nihil cum ageret, numquam minus solum esse quam cum solus esset Catone

Pagine heideggeriane è un progetto che nasce con l’intenzione di fornire uno strumento per l’approfondimento del pensiero di Martin Heidegger, fornendo una selezione di testi del filosofo tedesco selezionati per temi, affiancati da una letteratura critica ragionata sia italiana sia straniera, che offra al lettore delle indicazioni bibliografiche iniziali con cui approfondire lo studio di questo pensatore.

Heidegger è un filosofo molto discusso, nel bene e nel male, uno degli ultimi esponenti del pensiero che ha riproposto i grandi interrogativi della metafisica nutrendo l’ambizione di oltrepassarla: fortemente critico verso un uso disincantato della tecnica, spesso tacciato di esser più incline a pensare all’essere che non all’uomo, implicato nei fatti politici della Germania nazista, assertore della fine della filosofia e della necessità di un pensiero poetante. Capita così che Heidegger diventi o il maggior esponente del nichilismo nell’epoca contemporanea, o uno dei più genuini pensatori che abbiano tematizzato problemi teologici nel dibattito corrente; o, ancora, che diventi un intellettuale al servizio di un’ideologia.

Eppure Heidegger è molto più di questo.

Karl Löwith non ha mai risparmiato ad Heidegger nessuna critica; egli scrive esplicitamente, all’inizio della seconda edizione dell’opera Saggi su Heidegger, che l’intento del libro era quello di rompere il silenzio e l’aura che attorniava la figura del “maestro” Heidegger da parte di tutti coloro che se ne ritenevano discepoli. Eppure, proprio Löwith ce lo racconta così: « In lui, soprattutto, è all’opera l’energia originaria, tenace e concentrata di un sapere teso nella sua intensità e di una meditazione che tutto penetra del suo elemento, espunge il consunto schematismo di ogni nostro vecchio concetto, e rimette in questione criticamente tutta la tradizione del pensiero filosofico, indagandone passo a passo la fonte e la portata» [ref] K. LÖWITH, Saggi su Heidegger, trad. it. a cura di C. Cases e A. Mazzoni, Einaudi, Torino 1966, p. 124. [/ref].

Il pensiero di Heidegger ha percorso un’onda sinusoidale ricca di momenti diversi: è passato da una fiorente fortuna ad una «(relativa) “disgrazia” in cui pare essere caduto, perlomeno nell’ambito di una certa cultura accademica» [ref] P. D. BUBBIO, Bentornato Heidegger, prefazione a F. BRENCIO, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013, p. 17. [/ref]. Ridicolizzato dalla filosofia analitica, a causa della sua “oscurità” e “confusione”, nell’ambito della filosofia continentale ha conosciuto una vera autorevolezza: «Considerato il “padre nobile” dell’ermeneutica filosofica contemporanea, eletto a punto di riferimento imprescindibile da Gadamer, ed enormemente apprezzato dalla scuola fenomenologica francese, Heidegger ha mantenuto una posizione di assoluto rilievo per tutta la seconda metà del ventesimo secolo. Ma sul finire del secolo, qualcosa è cambiato anche in quel contesto. Da una parte, l’ideale del prospettivismo, avanzato da un’ermeneutica considerata come la nuova koiné del nostro tempo (secondo la celebre definizione di Gianni Vattimo), sembrava aver esaurito la sua forza propulsiva. Dall’altra, una filosofia analitica sempre più aggressiva sbarcava anche in Europa […]. E così, nel giro di qualche anno, anche nelle università del continente europeo […] Heidegger è stato messo da parte. Secondo alcuni era, semplicemente, “passato di moda”; mentre secondo altri il suo pensiero era stato eccessivamente sopravvalutato, e ora giustamente lo si ridimensionava» [ref] Ibidem, p. 17 e s. [/ref].

La filosofia, purtroppo, è soggetta alle mode come ogni altro prodotto dell’uomo e così anche Heidegger è stato l’oggetto della dea bendata. Eppure credo che insistere oggi sulla necessità di avvicinarsi al suo pensiero, accogliendone soprattutto gli interrogativi sia l’aspetto più stimolante. Se è vero, come scriveva Hegel, che la filosofia è il nostro tempo appreso col pensiero, allora “saper stare” dentro le domande heideggeriane rimane una delle vie privilegiate di accesso alla filosofia, accesso che impone l’onesta abitudine di dismettere il vezzo delle etichette per andare incontro ad una comprensione critica della sua filosofia. Forse Gadamer non era poi tanto lontano dal vero quando scriveva: «Se uno è convinto di essere “contro” Heidegger – o anche se si crede semplicemente di essergli “favorevole” – si renderebbe ridicolo. Non è così semplice passare davanti al pensiero» [ref] H. G. GADAMER, I sentieri di Heidegger, trad. it. a cura di R. Cristin e (solo per il cap. 8) G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987, p. 98. [/ref]. A prescindere dalla posizione di pensiero che si voglia assumere davanti ad Heidegger, non si può negare che egli si sia inserito nella filosofia andando a toccare i nodi concettuali più problematici e delicati del nostro patrimonio teoretico.

La ricchezza della speculazione heideggeriana non può facilmente essere semplificata. Tuttavia, se fra tutti gli interrogativi che si diramano dal suo procedere ne dovessimo rintracciare uno che funga da bussola con cui addentrarsi al suo interno, questo potrebbe essere il seguente: come può l’uomo, un essere finito, mortale, consegnato al tempo, comprendere se stesso (l’essere dell’esserci) e il mondo che abita non semplicemente come essere della mancanza ma facendo della sua propria finitezza il punto di forza del suo essere, del suo esistere, del suo fare? E da questo interrogativo, ancora altri non meno importanti: come può inverare la sua propria vita attraverso un esistere autentico? Come può far sì che le sue molteplici capacità non si trasformino in maglie pericolose che riducano la sua libertà? Come può questo stesso essere recuperare un senso sacro del mondo e nel mondo in un’epoca che vive nella povertà di tutte le povertà? Cosa ha da dire la filosofia a questo uomo? In che modo la filosofia può dialogare con le scienze umane?

Forse ci saranno studiosi che sosterranno che non è Heidegger il pensatore adeguato a rispondere a questi interrogativi, soprattutto allorquando essi, pur essendo posti sul terreno della filosofia, chiamano in causa anche altre discipline che si occupano dell’uomo, e forse, a loro modo di vedere, le argomentazioni portate potrebbero essere valide, anche se cuique interpretandi usu suo. Tuttavia Heidegger è ancora in grado di offrire validi concetti con cui rispondere a queste domande e porne delle nuove.

Questo “stare” nella domanda heideggeriana è lo strumento con cui interrogare il nostro tempo e il nostro spazio, rendendoci interpreti attenti e critici contro ogni soluzione prêt-à-porter del pensiero. Usando un’espressione che spesso torna nelle opere del filosofo tedesco, “il soggiorno” presso le domande è un permanere in esse attraverso l’esercizio della critica: non è un avvitarsi negli interrogativi attraverso i virtuosismi della riflessione filosofica, ma un verificare la fondatezza delle domande riconducendole a quelle essenziali e per questo originarie, cioè le domande ultime. Heidegger incalza l’interlocutore, a oltre trent’anni dalla sua morte, con le domande sulle cose ultime, sulla fondazione del mondo e procede per disvelarle, per toglierle dal loro nascondimento, operazione questa che si realizza nella penombra dell’esercizio ermeneutico in cui la parola è sempre Lichtung.

Proprio la parola della filosofia heideggeriana esige uno sforzo da parte del lettore, sovente disabituato ad un linguaggio che procede per metafore, che trae linfa dalla poesia, che prende a prestito – a volte anche impropriamente, come ricorda Gadamer – le parole guida del pensiero greco o che si avventura per le vette della metafisica. La parola che Heidegger affida alla filosofia reclama aderenza alla cosa di cui parla, cifra questa che connota in modo inequivocabile lo stile dell’autore. Tale aderenza può essere compresa attraverso tre significati. È l’aderenza alla cosa: la parola aderisce alla cosa, ne diventa non semplicemente segno fonetico ma ne accoglie l’esistenza allo stesso modo di come la terra (Boden) accoglie i viventi. È l’aderenza alla terra: la parola aderisce alla terra del Baden, ai suoni tipici della Mundart permettendo alla concretezza delle cose di diventare tangibile solo con il nominarle, senza scadere tuttavia in una specie di sentimentalismo ombelicale. Infine, è aderenza al pensiero: la parola non è meramente uno strumento con cui parlare e dare forma al pensiero ma testimonia quella meditazione sull’essere che ha impegnato Heidegger per tutta la sua esistenza; così l’incompiutezza linguistica di Essere e tempo segna già agli albori della sua storia la ricerca del linguaggio capace di nominare le cose, capace di dire l’essere, capace di far abitare il mondo poeticamente, rifuggendo da ogni ingenuo romanticismo.

In una conferenza del 1965 dal titolo La fine del pensiero nella forma della filosofia – pubblicata nel 1984 da Hermann Heidegger con il titolo La questione della determinazione della “cosa” del pensiero – Heidegger disse: «La filosofia è giunta alla sua fine […]. Nella fine della filosofia si compie quella direttiva che, sin dal suo inizio, il pensiero filosofico segue lungo il cammino della propria storia. Alla fine della filosofia il problema dell’ultima possibilità del suo pensiero diviene affare serio» [ref] M. HEIDEGGER, Filosofia e cibernetica, trad. it. a cura di A. Fabris, ETS, Pisa 1988, pp. 30-34. [/ref]. La questione dell’ultima possibilità della filosofia è dunque l’orizzonte di senso in cui siamo chiamati a pensare. Forse può apparire una deriva nichilista quella di chiamare in causa la fine della filosofia in un momento storico in cui vari dibattiti animano la scena teoretica italiana e non solo: penso al dibattito sul nuovo realismo, alla querelle fra filosofia analitica e continentale, all’attenzione manifestata negli ultimi anni da parte della filosofia per tutti i viventi sollevando la “questione animale”, alla rinascita di studi verso i classici. Altresì si tradirebbe il senso genuino di questa espressione se ci lasciassimo facilmente ingannare dalle parole e considerassimo la “fine della filosofia” in un puro senso negativo, come un mero cessare, come il venir a mancare di un processo, se non addirittura come impotenza e incapacità. Se così fosse, a questa nota espressione heideggeriana spetterebbe lo stesso destino che è toccato alla famosa espressione hegeliana intorno alla “morte dell’arte” – espressione questa, è bene ricordarlo, mai usata da Hegel, bensì coniata da Benedetto Croce al fine di indicare il ruolo dell’arte all’interno del sistema, cioè la sua Auflösung [ref] Cfr. D. FORMAGGIO, La “morte dell’arte” e l’Estetica, Il Mulino, Bologna 1983 [/ref].  Proprio per capire cosa si intende con questa “fine della filosofia”  occorre tornare alla riflessione compiuta da Heidegger sulla metafisica occidentale e sull’oblio dell’essere da essa realizzato, al compimento che realizza sin dalla sua fondazione, cioè alla Grundfrage. E’ in questa direzione che va interpretata questa espressione. «La fine della filosofia si mostra come il trionfo della dominante fondazione di un mondo tecnico-scientifico e dell’ordinamento sociale conforme a questo mondo» [ref] M. HEIDEGGER, La fine della filosofia e il compito del pensare, in E. MIRRI, Il pensare poetante, trad. it. a cura di E. Mirri, C. L. E. U. P., Perugia, pp. 144-148. [/ref]. Avremo modo di leggere le pagine dell’autore sulla questione dell’oltrepassamento della metafisica e dell’oblio dell’essere, così come quelle sulla questione della tecnica e del pensiero poetante. Tuttavia, in questa sede introduttiva, mi sembra utile ribadire l’importanza delle indicazioni heideggeriane sulla possibilità della filosofia nel nostro tempo, tempo in cui «l’uomo, che non è più né il “figlio di Dio”, né il “fine della natura”, né il “soggetto della storia” [. . . ] bensì è l’esistente in cui l’essere si espone come fare senso [. . . ]. L’uomo non è più il significato del senso [. . . ] ma è il suo significante [. . . ] perché ne indica e ne apre il compito» [ref] J. L. NANCY, Sull’agire. Heidegger e l’etica, trad. it. a cura di A. Moscati, Cronopio, Palermo 2005, p. 32. [/ref]. Dopo la fine dei sistemi forti, cioè di quelle speculazioni in grado di spiegare, giustificare e fondare la realtà more geometrico, dopo la “morte di Dio” che ha occupato un posto privilegiato nella speculazione novecentesca – teorizzazione hegeliana, aforisma nietzscheano, visione del mondo, impasse metafisica contro cui il filosofare stesso si è imbattuto e ha dovuto rimettersi in discussione per cercare di rispondere all’interrogativo che nasceva dal vuoto occupato dal fondamento – dopo l’inaugurazione del post-moderno come scenario storico in cui si consumano e si interpretano le scienze che parlano dell’uomo e sull’uomo, il compito del significante “uomo” è rimesso in questione nello spazio della filosofia e del suo fare, creando nuovi orizzonti di senso, o per usare un’espressione evocativa di Bloch, utopie irrealizzate, da intendersi non come fughe nell’irreale, bensì  come scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione. Pertanto, ogni declinazione della domanda sul senso del Dasein è un “angolo di mondo” che Heidegger ci invita a comprendere per poterlo abitare. Attraverso la sua speculazione, egli ha voltato le spalle alla coscienza dell’idealismo tedesco in direzione dell’effettività dell’esistere dell’uomo: l’esserci è posto sempre come mio “esserci” e non cede il passo all’io generico di cartesiana provenienza, ma si radica nel terreno del “qui e ora”, della progettualità (futuro) e della rammemorazione (passato). Questa costante attenzione all’esistenza singola, finita, concreta, manifestata sin dall’ultimo corso universitario a Freiburg nel 1923 [ref] Cfr. M. HEIDEGGER, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, trad. it. a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1998. [/ref], non solo collidono con quella interpretazione di Heidegger che lo vede uno studioso più interessato all’essere che non all’uomo, ma soprattutto gettano luce sulla possibilità di una riscoperta della sua filosofia in termini d’esistenza. L’algebra dello spirito si inverte e dalle profondità dell’essere siamo prepotentemente richiamati ad una visione fenomenica dell’esistente, dell’uomo, nella sua finitezza e trascendenza.

1 commento
  1. Alessandro
    Alessandro dice:

    Gentile dott.ssa Brencio, Heidegger pensa l’Essere non come fondamento per non ricadere nell’errore metafisico. Tuttavia, non essendoci un fondamento, il divenire e’ libero da ogni vincolo. Questa e’ anche la critica di Severino. La tecnica e’ un tentativo illusorio di combattere l’angoscia che ci provoca l’inesorabile scorrere annichilatore del tempo. Quindi a mio avviso l’Essere concepito come non fondamento non e’ efficace per neutralizzare la tecnica. Secondo me si puo’ pensare all’Essere come fondamento, come immutabile e allo stesso tempo non definibile, non calcolabile, non riducibile ad oggetto. In fodo noi siamo parte del tutto e quindi non possiamo mai afferrare l’Essere nella sua totalita’. Grazie per lo spazio concesso e Le sarei grato se potesse esprimere il Suo pensiero a riguardo. Distinti saluti.

    Rispondi

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.