Possibilità e finitezza

di

Francesca Brencio

 

L’esserci è sempre in qualche modo diretto verso…in cammino
M. Heidegger

Sein und Zeit inizia con una dichiarazione di intenti: subito dopo l’epigrafe tratta dal Sofista di Platone, Heidegger scrive:

È dunque necessario riproporre il problema sul senso dell’essere (die Frage nach dem Sinn von Sein) […]. Lo scopo del presente lavoro è quello dell’elaborazione del problema del senso dell’“essere”. Il suo traguardo provvisorio è l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale[ref]M. Heidegger, Essere e tempo (1927), trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 14.[/ref].

 Se l’intento dell’opera del ’27 è quello di proporre una ricerca sul senso dell’essere, tuttavia in quella sede Heidegger analizza la struttura dell’esserci in quanto unico ente in grado di porsi la domanda sul senso dell’essere. Il tentativo di auto comprensione dell’esserci – e quindi tutta l’analitica esistenziale  –  si iscrive all’interno di quella fatticità dell’esserci che determina in modo originario la soggettività.
Il corso di lezioni tenute nel semestre estivo del 1923 fu intitolato da Heidegger proprio Ermeneutica della fatticità ed in questo corso egli fornì il primo orizzonte per la comprensione dell’essere, cioè l’effettività, la quale si configura come «la denominazione per il carattere di essere del “nostro” “proprio” esserci»[ref]M. Heidegger, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, trad. it. a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1998, p.17.[/ref]. L’ermeneutica della fatticità è l’autointerpretazione della fatticità dell’esserci, cioè l’interpretazione – ma anche comunicazione – del carattere ontologico dell’esserci. Questa comprensione, è il passo preliminare e fondamentale per la comprensione dell’essere. Eppure, come nota Gadamer a proposito dell’espressione “ermeneutica della fatticità”,

bisogna rendersi conto che è come dire un ferro di legno, una contraddizione in termini. Infatti la parola fatticità significa proprio la resistenza irremovibile opposta dal fattuale a qualsiasi afferrare e comprendere […]. La comprensione dell’essere che contraddistingue l’esserci umano, in quanto egli si interroga circa il senso dell’essere, è anche in sommo grado un paradosso […]. L’esserci umano, interrogandosi sul senso del proprio essere, si vede piuttosto confrontato con l’inconcettualizzabilità della sua propria esistenza[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 48 e s.[/ref].

La fatticità, così come Heidegger la pone, non può essere scissa in alcun modo dalla storicità dell’esserci, in quanto costituzione ontologica della temporalizzazione dell’esserci stesso. Il comprendersi nel proprio essere è per l’esserci, cioè per l’uomo, un sapere, nella propria autocomprensione, di non essere padrone di se stesso, di «ritrovarsi in mezzo all’essente e di doversi accettare come si ritrova»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 87.[/ref].

 Dunque, per rispondere alla domanda “che cos’è l’essere?”, Heidegger parte dalla domanda di che cosa (e non chi)[ref]«Il termine “Esserci” […] esprime l’essere e non il che cosa, come accade invece quando si dice pane, casa, albero», M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 64 e s.[/ref] sia l’esserci; parte, in altri termini, dalla riproposizione della domanda kantiana, chi è l’uomo?, tentando di oltrepassare il versante gnoseologico in vista di un orizzonte più ampio. Il primo passo in direzione dell’ontologia è dunque una chiarificazione del senso dell’esistenza, cioè del modo d’essere dell’esserci:

Quell’essere stesso verso cui l’Esserci può comportarsi in un modo o nell’altro e verso cui sempre in qualche modo si comporta, noi lo chiamiamo esistenza. e poiché la determinazione dell’essenza di questo ente non può non avere luogo mediante l’indicazione della quiddità di un contenuto reale, in quanto la sua essenza consiste piuttosto nell’aver sempre da essere il suo essere in quanto suo, è stato scelto il termine Esserci, quale pura espressione di essere, per designare questo ente[ref]M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 28 e s.[/ref].

L’esserci ha sempre da essere il suo essere, cioè deve autodeterminarsi:

L’essenza di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di questo ente, per quanto in generale si può parlare di essa, deve essere intesa a partire dal suo essere (existentia). Ecco perché l’ontologia ha il compito di mostrare che, se noi scegliamo per l’essere di questo ente la designazione di esistenza, questo termine non ha e non può avere il significato ontologico del termine tradizionale existentia […].L’Esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’ “ha” semplicemente a titolo di proprietà posseduta da parte di una semplice presenza […]. L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. Questo ente può, nel suo essere, o “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente”[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 64 e s.[/ref].

È nella Lettera sull’umanesimo che Heidegger puntualizza come l’esistenza di cui si parla in Essere e tempo «non si identifica con il concetto tradizionale di existentia, che significa realtà a differenza di essentia intesa come possibilità»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 278.[/ref]. L’esserci è dunque sempre la sua possibilità in quanto poter essere (Seinkönnen).

Il termine Dasein usato da Heidegger indica, quindi,  l’uomo nella sua singolarità come problema aperto per la sua stessa comprensione. Questo termine riscatta l’usura linguistica di cui la parola “uomo” è stata inficiata. «Allorchè parlò di “esserci”, Heidegger non usò semplicemente un vocabolo nuovo e di elementare potenza denominativa, con il quale sostituire i concetti di soggettività, autocoscienza ed ego trascendentale»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 109.[/ref], ma si spinse oltre la metafisica greca per la comprensione dell’essere.

L’uomo dispiega la sua essenza in modo da essere il “ci” (Da), cioè la radura dell’essere. Questo “essere” del “ci”, e solo questo, ha il carattere fondamentale dell’e-sistenza, cioè dell’e-statico stare-dentro (das ek-statische Innestehen) nella verità dell’essere[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 278 s.[/ref].

Dasein significa essere-il-Da, cioè essere-il-Ci. Tale Ci è la consapevolezza che il possibile è sempre tale in relazione a qualcosa che va oltrepassato. Nel Ci, futuro e passato  sono sempre la propria storia, il proprio essere, il proprio progetto; il Ci è l’accadere stesso della realizzazione della possibilità che l’esserci sceglie; il Ci traduce in termini ontici per il Dasein ciò che la Lichtung traduce per l’essere: la “radura”.

La realizzazione autentica che l’assunzione del compito di essere il proprio Ci impone è la decisione anticipatrice: l’essere-per-la-morte. Il Dasein è anche già sempre la sua morte; essa è la possibilità più autentica attraverso la quale il Dasein sovrasta se stesso; la morte non è una semplice-presenza, ma una possibilità dell’essere dell’esserci. La decisione anticipatrice dischiude davanti al Dasein l’angoscia: essa pone l’Esserci davanti all’angoscia. «L’essere-per-la-morte è essenzialmente angoscia»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 323.[/ref]. Ma davanti a questa angoscia, la quale si configura come la determinazione della situazione emotiva più propria dell’Esserci, come lo sguardo disincantato di fronte all’inautenticità dell’esistenza, il Dasein concede a se stesso la possibilità di una «libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: LA LIBERTA’ PER LA MORTE»[ref]Ibidem.[/ref]. La decisione anticipatrice rappresenta così, al tempo stesso, il punto di contatto tra il livello esistenziale e quello esistentivo: attraverso la comprensione ontologica della propria fine, l’Esserci può realizzare consapevolmente l’esistenza autentica.

L’essere-per-la-morte riesce a rovesciare l’ordine della temporalità quotidiana, scandito dalla tripartizione presente, passato, futuro. Tale rovesciamento si realizza in un duplice movimento, quello dell’anticipazione e quello del ritorno al presente fondando un nuovo margine di temporalità: quella autentica, all’interno della quale esperire la progettualità, la libertà e la storicità dell’Esserci stesso. Solo attraverso la decisione anticipatrice il Dasein si appropria della cifra ontologica che lo costituisce: la finitudine[ref]Cfr. su questo tema G. Strummiello, L’altro inizio del pensiero. I Beiträge zur Philosophie di M. Heidegger, Levante, Bari 1995, pp. 182 ss.[/ref]. Per Heidegger la libertà per la morte non è negatività[ref]Cfr. F. Chiereghin, Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla Fenomenologia dello spirito, Edizioni di Verifiche, Trento 1980, pp. 94 ss.[/ref],  al pari di quanto invece è ad esempio per Hegel, piuttosto è la libertà dell’Esserci esperita a partire dalla finitezza che trascende se stessa verso l’essere; per Heidegger la morte addita verso una trascendenza che abbraccia la totalità del finito e che nel finito vuole rimanere ancorata. La declinazione heideggeriana del tema della morte la connota all’interno della finitezza, del regno esclusivo dell’Esserci, rifuggendo ogni tentativo dialettico[ref]Sul problema della morte in Heidegger Cfr. U. M. Ugazio, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976; V. Vitiello, Heidegger. Il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Mataphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976, pp. 398 ss.; G. Morpurgo Tagliabue, Le strutture del trascendentale, Bocca, Milano 1951, in particolare pp. 251 ss. [/ref].

Il Ci manifesta la sua cooriginaria apertura al “non” dell’ente e al “non” del non essere iscritto in esso nell’angoscia. Proprio nella percezione dell’angoscia, quale situazione emotiva fondamentale e primaria dell’Esserci, quest’ultimo sperimenta il davanti-a-che del proprio essere nel mondo come tale; nello spaesamento che segue all’angoscia, quel “non sentirsi a casa propria in nessun luogo” «si rivela il niente»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 67.[/ref], ma «non come ente, e tanto meno come oggetto»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 69. Cfr. a tal proposito G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 1982.[/ref]. Se questo Ci dell’esserci è ciò che, come Heidegger afferma, permette all’esserci di abitare presso la radura dell’essere, è altresì ciò che lo conduce verso l’appropriazione della sua negatività, cioè della negatività di cui l’esserci è cifra vivente. Questa è la negatività radicale riposta al fondo dell’esistenza: fondo, poiché essa è il Grund dell’essere dell’esserci.

La riflessione intorno alla negazione (il “non”) ed al vasto problema del nulla è introdotta nell’opera del 1927 attraverso il concetto di colpevolezza dell’esserci. «L’idea di “colpevole” porta con sé il carattere del non»[ref] M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 343.[/ref]: cioè, tale idea è determinata da un “non”, l’ «essere fondamento di una nullità»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 343.[/ref]. Questo originario “non” ravvisato da Heidegger è il segno della costitutiva esistenziale gettatezza dell’esserci, per la quale «l’Esserci […] è, come tale, una nullità di se stesso. Ma “nullità” non significa affatto non esser-presente, insussistenza; essa concerne un “non” che è costitutivo dell’essere dell’Esserci, del suo essere gettato»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 345.[/ref]. La deiezione (Verfallen) costituisce la prova più lampante dell’esistenzialità dell’esserci e ne rivela la quotidiana relazione con il mondo.

Il “non” quale costitutivo dell’essere dell’esserci è ciò che indica come il fondamento di questo stesso essere non è riposto nell’esserci, ma altrove. Il non essere fondamento del proprio essere consente all’esserci la sua specifica progettualità, cioè la “non” fondatezza dell’essere dell’esserci fa sperimentare a questo esserci la nullità del suo essere e del suo progetto, senza con ciò indicare un’assenza di valore o un’insignificanza interna all’esserci stesso ed alla propria progettualità. Piuttosto, la «nullità […] fa parte dell’essere-libero dell’Esserci per le sue possibilità esistentive. Ma la libertà è solo nella scelta di una possibilità, cioè nel sopportare di non-aver-scelto e di non-poter-scegliere le altre»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 345.[/ref]. La nullità di cui parla Heidegger è una nullità esistenziale che permette lo sviluppo della libertà autentica; questa nullità non ha il carattere della privazione o della manchevolezza, ma costituisce una positività il cui valore ontologico essenziale «resta ancora oscuro»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 346.[/ref].

Da questa critica all’ontologia tradizionale emerge in filigrana uno dei tratti più caratteristici della heideggeriana Daseinsanalyse: l’esserci ha in sé il negativo, un “non” originario che si costituisce come potenziale positività in quanto permette la determinazione dell’effettivo realizzarsi della libertà esistenziale. Come scriverà più tardi nei Beiträge zur Philosophie, l’esserci è “abissale”, poiché il fondo di negatività che gli è proprio e che lo costituisce è ciò che assegna il compito di «mantener fermo l’abisso e con ciò l’essenza dell’essere. Questo mantenere fermo l’abisso appartiene all’essenza dell’Esserci, in quanto fondazione della verità dell’essere»[ref]«[Das nichtendgültige Wissen] hält den Abgrund una damit das Wesen des Seyns gerade fest. Dieses Festhalten des Abgrundes gehört zum Wesen des Das-seins als der Gründung der Wahreit des Seyns» (M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt am Main, 1989, p. 460, trad. mia).[/ref]. Considerando l’essenziale fenditura negativa che abita la struttura dell’esserci Heidegger pensa quest’ultimo come “pastore dell’essere e luogotenente del nulla”, come rimando alla reciproca verità che permette la coappartenenza di essere e niente.

È nell’ampia indagine sulla Befindlinchkeit[ref]Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 172 ss. In particolar modo si ricordi quanto afferma Heidegger: «La tonalità emotiva porta l’Esserci dinanzi al “che” del suo “Ci”, che gli sta di fronte come un enigma impenetrabile» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 174).[/ref] che emerge l’apertura esistentiva del Ci dell’esserci, rivelando l’ente nella sua totalità e che quindi permette di sperimentare cosa il nulla sia davanti all’esserci: non un qualcosa determinato, ma il progressivo dileguare della determinabilità dell’essere presente. Così, nell’angoscia la totalità dell’ente vacilla: in questo suo vacillare, l’ente nella totalità del suo essere si dilegua. Questo dileguare dell’ente è l’essenza del niente: la nientificazione (Nichtung).

Essa non è un annientamento dell’ente, e neppure scaturisce da una negazione. La nientificazione non è nemmeno commisurabile all’annientamento o alla negazione. È il niente stesso che nientifica. Il nientificare non è un’occorrenza qualsiasi, ma in quanto è un rinviare, respingendolo, all’ente nella sua totalità che si dilegua, esso rivela questo ente, nella sua piena e fino allora nascosta estraneità, come l’assolutamente altro – rispetto al niente[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 70.[/ref].

Il niente di cui fa esperienza l’esserci non è un mero nulla, ma piuttosto una potenza che lascia l’esserci «tenuto immerso nel niente»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 70.[/ref]. Il nulla è originario rispetto alla costituzione dell’esserci, più originario dell’essere stesso e permette a questo sia il suo puro essere sia la sua propria libertà[ref]Cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 71.[/ref].

La libertà dell’esserci è il suo abisso senza fondo: nella sua essenziale natura trascendente, la libertà dell’esserci pone questo essere nella possibilità più ampia e lo reclama alla scelta del proprio progetto autentico. Nel Denkweg heideggeriano sono il confronto con Kant e con Schelling (nel corso del 1936) a permettere l’approfondimento della speculazione sulla libertà, già inaugurata con Essere e tempo. La «libertà da» e la «libertà per» sono le due determinazioni con cui Heidegger pensa alla libertà come fondo abissale della possibilità dell’esserci di avere da essere.

L’unità dei tre elementi – la fatticità, l’esistenzialità e la deiezione – è rappresentata dalla cura (die Sorge), la quale rivela l’essere dell’esserci:

L’esistere è sempre effettivo. L’esistenzialità è sempre determinata in modo essenziale dalla effettività […]. L’esistere effettivo dell’Esserci non è soltanto […] un gettato poter-essere-nel-mondo, ma è anche già sempre immedesimato con un mondo di cui si prende cura […]. La Cura non caratterizza però la sola esistenzialità, separata dalla effettività e dalla deiezione, ma abbraccia l’unità di queste determinazioni d’essere[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 240 e s.[/ref].

Tra gli interpreti di Heidegger, c’è stato chi ha sottolineato la derivazione husserliana del concetto di cura, evidenziando come essa traduca, a partire dal terreno dell’affettività, l’intenzionalità di Husserl, come ad esempio De Waelhens[ref]Cfr. A. De Waelhens, La philosophie de Martin Heidegger, Publications Universitaires, Lovanio 1955.[/ref]. Nel corso del 1927 intitolato Die Grundprobleme der Phanomenologie, effettivamente si viene definendo il concetto heideggeriano di cura a partire dal concreto soggetto dell’esistenza, il Dasein, e non da un qualsiasi soggetto logico. Già in questo corso emerge come la soggettività sia essenzialmente cura e lo sia nella dimensione tipica dell’esistenza: il “fatto della vita umana” è il trascendersi da parte del Dasein nel mondo, cioè il essere già presso le cose e il suo prendersene cura. L’esistenza del Dasein assume il segno dell’affettività e non più di una funzione logica, bensì di un essere che vive, sente, è attraversato dal mondo perché nel mondo trova il proprio posto. «Heidegger ritiene di aver riportato l’intenzionalità dall’immanenza dell’astratta idealità riflessiva […] alla trascendenza del fattuale esistere immediato, la quale invece è assoluta perché è originaria»[ref]A. Masullo, La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, in “Archivio di filosofia”, a. XVII, 1989, p. 384.[/ref].

Non solo: nel corso svolto nel 1925, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs,  Heidegger, definendo la cura come accesso alla concreta pienezza dell’esser-ci, ovvero del fenomeno l’uomo , pronuncia un giudizio di insufficienza nei riguardi dell’intenzionalità husserliana, la quale solo “frammentariamente” e da un punto di vista “esterno”, rende ragione del fenomeno dell’esistenza del Dasein. Il punto in cui le due prospettive – quella husserliana e quella heideggeriana – si scontrano è la nozione di l’esistenza a partire dall’ “ek”: esso allude all’essere dell’uomo come uno stare-fuori-di-sé, un essere pienamente esposto – o arrischiato, parafrasando Rilke – che gli consente di stare-fuori nella verità dell’Essere. «La attualità dell’esser-ci, concepita da Heidegger, è segnata dall’ “ek” nel senso che l’umanità dell’uomo vi è pensata come l’uscita dall’insignificanza della contingenza ontica e l’ingresso nella pienezza significativa della necessità ontologica»[ref]A. Masullo, La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, cit., p. 385 e s.[/ref]. Nella comprensione della radice “ek” si gioca la comprensione della soggettività nella speculazione del maestro Husserl e del giovane assistente Heidegger. Con il passaggio dall’intenzionalità alla cura, l’orizzonte trascendentale lascia il posto a quello affettivo quale cifra originaria della soggettività.

Questo passaggio non solo conduce a soppiantare la fenomenologia a favore di un’ermeneutica della fatticità che comprenda l’esistenza come un continuo uscir-fuori di sé – uscire fuori di sé che non ambisce a soggiornare presso l’essere per rimanervi, quanto un continuo movimento di uscita del sé – ma anche a fare della possibilità del soggiornare nel mondo il versante ontico in cui si dispiega la cura.

Bibliografia delle opere citate

M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976;
Id., Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, trad. it. a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1998;
Id., Segnavia, traduzione italiana a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987;
Id., Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt am Main, 1989;
Chiereghin F., Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla Fenomenologia dello spirito, Edizioni di Verifiche, Trento 1980;
De Waelhens A., La philosophie de Martin Heidegger, Publications Universitaires, Lovanio 1955.
Gadamer H. G., I sentieri di Heidegger,
Masullo A., La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, in “Archivio di filosofia”, XVII, 1989.
Morpurgo Tagliabue G., Le strutture del trascendentale, Bocca, Milano 1951;
Strummiello G., L’altro inizio del pensiero. I Beiträge zur Philosophie di M. Heidegger, Levante, Bari 1995;
Ugazio U. M., Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976;
Vitiello V., Heidegger. Il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Mataphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976.

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