Un rinnovamento storiografico del Novecento: la scuola delle Annales

Un rinnovamento storiografico del Novecento: la scuola delle Annales

di Sonia Caporossi

Già apparso in due parti con licenza CC su criticaimpura.wordpress.com (prima parte, seconda parte), quindi in forma riveduta e corretta su www.storiaestorici.it e in ebook su “Un Anno Di Critica Impura”, di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Web-Press Edizioni Digitali, Milano, Gennaio 2013 – ISBN: 978-88-906285-97
 

Sommario:

  • La scuola della Annales
  • 1930-1968, una svolta della storiografia
  • La rinascita delle fonti e la decadenza del soggetto
  • Un sistema aperto e una storiografia eterodiretta dallo storico
  • Il tempo storico e la “lunga durata”
  • Un impianto possente e contradditorio
  • E il tempo che cosa è

 

La scuola della Annales

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]Q[/drop_cap]uando la scuola storiografica delle Annales, com’è noto, sorse in Francia intorno alla rivista Annales d’histoire économique et sociale fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucièn Fevbre [ref]Il titolo della rivista variò poi nel 1946 in Annales. Economies. Sociétés. Civilisation e dal 1994 in Annales. Histoire et sciences sociales. Il movimento si articolò, com’è noto, in tre periodi fondamentali: 1929-1944, 1945-1968 e dal 1968 in poi, come specificato più avanti.[/ref], essa fu immediatamente caratterizzata da una considerazione fortemente innovativa della ricerca storiografica. Questo senso di ricerca ed innovazione, infatti, concedeva sostrato al significato, nella teoresi e nella prassi, dell’attenzione rivolta da Bloch e Febvre nei confronti di branche del sapere, come ad esempio l’economia e gli studi sociali, che tradizionalmente erano quasi del tutto rimaste ai margini della considerazione storiografica in senso finalmente scientifico, laddove avevano trovato un posizionamento strategico, nel lungo secolo della storiografia di ascendenza idealistico – romantica, come semplici forme dello sviluppo progressivo dello Spirito in generale, ovvero, come propugnavano più tardi i positivisti in polemica con le variopinte hegelianità, in un campo di dominio permeato della più bieca e gradassa metafisica.

La direzione intrapresa era quella dell’ampliamento delle problematiche da analizzare per affrontare i processi storici in senso strutturale, o per meglio dire strutturalista, come verrà meglio a delinearsi successivamente nel marasma culturale degli anni Sessanta  [ref]Cfr. I. Fazio, Nuova Storia Culturale, in Cultural Studies, rivista telematica dell’Università di Palermo, pp. 2-3: “Anche la scuola francese delle Annales, che già dai suoi inizi si era caratterizzata per la ricerca di insiemi sociali e di sviluppi di civiltà di lunga durata che oltrepassavano gli steccati della storia politica e religiosa, in una seconda fase, dal dopoguerra in poi, si è orientata verso temi culturali. Forme simboliche e pratiche materiali venivano documentate in modo dettagliato. L’eclettismo interdisciplinare delle Annales si inquadrava in una cornice teorico metodologica di strutturalismo storicista. Dallo strutturalismo francese, sia linguistico che antropologico, traeva la concezione della storia  come insieme di strutture – dalle  credenze alle  pratiche economiche – che funzionavano in modo organico. Esse si modificavano lentissimamente, lasciando spazio quindi a un’enfasi analitica sui fattori di permanenza e sulle interazioni reciproche tra gli elementi della struttura. È facile comprendere quindi il legame di questo modello analitico con l’antropologia strutturalista. Infine, un terzo elemento accanto al lavoro degli storici sociali e degli animatori delle Annales portava la cultura, e in particolare quella dei gruppi subalterni, in primo piano nella storia e nelle altre scienze sociali: i movimenti sociali, generazionali, controculturali e antiegemonici di fine anni Sessanta premevano nel senso dell’apertura a temi di ricerca relativi ai gruppi dominati, come i neri, le donne, i popoli del cosiddetto terzo mondo la cui vita veniva alla luce nell’ambito del processo di decolonizzazione. La ricerca sociologica soprattutto dava attenzione alla cultura popolare e alla controcultura; la ricerca femminista cominciava a legare mondi mentali e ambiti corporei; nascevano gli studi subalterni”.[/ref]; tuttavia, fin da subito i nuovi storici delle Annales operarono considerando parte integrante dell’indagine storica gli aspetti della produzione, della tecnologia, dei mezzi di lavoro, l’apertura a temi come le mentalità, la considerazione dei manufatti, la demografia, la vita quotidiana, la sessualità, l’alimentazione, le abitudini di consumo e chi più ne ha più ne metta, lanciando esche a cui abboccheranno le successive correnti psicosociostoricofilosofiche, in patria e fuori dai confini (prestabiliti). Campi di interesse nuovi divennero quindi ben presto anche le civiltà extraeuropee, in un ampliamento in senso globale e globalizzato, o forse meglio dire globalizzante, dei confini geopolitici, derivato dalla contemporanea intersezione con l’etnologia e l’antropologia culturale, ma soprattutto nel primo periodo delle Annales era viva la sollecitazione a colmare i ritardi rispetto alle scienze esatte e naturali: “ciò che premeva a Bloch […] era la rivendicazione della possibilità di una conoscenza critica, scientifica, dei singoli fatti storici”, laddove la figura con cui dialogare in tal senso, in primis e fin dal principio, era il Durkheim dell’Année sociologique. Mentre per il sociologo “la storiografia o non era scientifica, e allora rimaneva confinata, al limite, nell’aneddoto; o era scientifica, passibile cioè di comparazioni tali da condurre all’enunciazione di leggi, e allora si identificava con la sociologia”  [ref]Così scrive C. Ginzburg nella Prefazione a M. Bloch, I re taumaturghi, Torino 1973, p. XII. Del resto, come sostiene M. Mastrogregori in A. De Bernardi e S. Guarracino, Dizionario di Storiografia, Milano 1996, “la struttura della rivista riprende quella dell’Année sociologique (1879) di E. Durkheim, e si è ipotizzato che Bloch e Febvre volessero riprendere, a favore della storiografia, il disegno durkheimiano di un’egemonia della sociologia tra le scienze sociali, elaborato all’inizio del secolo proprio contro la storiografia”. Durkheim in effetti opponeva allo studio del fatto individuale, irripetibile, quello delle determinazioni sociali, cui si attribuiva un ruolo essenziale in tutto lo sviluppo della società, e questo, di fatto, è il punto di partenza del discorso storiografico delle Annales fin dalla fondazione.[/ref], per Bloch, al contrario, la scientificità del lavoro dello storico era una rivendicazione legittima senz’ombra di dubbio; ma proprio per questo, implicitamente, dava ragione allo stesso Durkheim: occorreva, per possederne un paradigma valido, uscire dal modello della storia dell’aneddoto.

Non consapevole di questa preliminare contraddizione nell’enunciato, il movimento delle Annales auspicava in questo senso il lavoro collegiale degli storici, i quali avrebbero dovuto avvalersi dei contributi interdisciplinari sulla base di una comune piattaforma interpretativa: si mirava insomma ad  ottenere una cooperazione internazionale a livello di ricerca, l’apertura all’attenzione di un vasto pubblico interessato ai problemi del presente e soprattutto il raggiungimento di “un lavoro comune con le scienze sociali, dalla geografia alla statistica, dall’economia politica alla psicologia e alla sociologia”, anche alla luce dell’importanza del fattore economico analizzato centralmente, per la prima volta, dalla storiografia marxista, caratterizzata dalla posizione di un problema, quello economico – sociale, di più vasto respiro  [ref]Fu J. Jaurès, coi suoi volumi sulla Storia socialista della rivoluzione francese (1900), che indusse gli storici francesi dei periodi successivi a prestare maggiore attenzione ai fatti socio-economici, influenzando per esempio storici del calibro di G. Lefebvre. A testimonianza dell’accresciuta importanza del fattore socio – economico nell’interpretazione storica basti pensare che nel 1927 (due anni prima della pubblicazione del primo numero delle Annales) Mathiez, il maggior storico della rivoluzione francese durante il primo trentennio del secolo, aveva pubblicato la sua migliore opera socio-economica: Il carovita e il movimento sociale sotto il Terrore.[/ref].

1930-1968, una svolta della storiografia

Gli anni Trenta segnano insomma l’inizio della fine della storiografia meramente politica o, come si sarebbe detto di lì a poco a mo’ di slogan, evenemenziale. La rivoluzione russa, la cavalcata spettrale del marxismo nei cieli d’Europa, i mutamenti sociali post-bellici, la presenza ossessiva dell’elemento economico a guidare la danza macabra durante e dopo la Prima guerra mondiale, in particolare la crisi economica nel ping pong planetario che ebbe inizio proprio nel 1929 e che finì per coinvolgere anche la Francia: tutto ciò comportò un avvicinamento fatale, un’attrazione ideocentrica degli storici francesi alle questioni economiche. Ad esempio, se pure i primi lavori di Bloch sono consacrati alla Francia capetingia con studi sui problemi della psicologia collettiva e delle mentalità  [ref]Stiamo parlando de I re taumaturghi , opera che venne pubblicata nel 1924 e all’interno della quale si fa strada un’idea di psicologia e sociologia storica incentrata sulla definizione delle “représentations collectives”. Il sostenitore più fervido della psicologia storica fu Febvre, a cominciare dal saggio del 1938 Une vue d’ensemble: historie et psychologie.[/ref], modalità di analisi e ricerca poi cadute nelle fauci impastoiate di ben più miserandi tuttologi e psicanalisti sessantottini, verso la metà degli anni Venti la sua attenzione si concentra sulla storia agraria medievale francese ed europea, tanto che nel 1931 insegna a Oslo storia agraria comparata e proprio in quel periodo pubblica l’opera che lo fa diventare il maggior storico-economista della Francia: I caratteri originali della storia rurale francese  [ref]Negli anni 1939-40 appare quello che può essere considerato il suo capolavoro: La società feudale.[/ref]. Ma le Annales conobbero anche altre linee di sviluppo, in cui le linee di demarcazione fra tendenze differenti si fanno abbastanza definite. Il secondo periodo delle Annales prende vita dopo la morte di Bloch nel 1944  [ref]Già cinquantenne, Bloch si arruolò doverosamente, col grado di capitano, contro i nazisti. Nel 1940 fu in quelle unità francesi che riuscirono a imbarcarsi a Dunkerque per l’Inghilterra, da dove poi rientrò in Francia, ma dopo la capitolazione non potette più insegnare alla Sorbona e per qualche tempo esercitò in provincia, contemporaneamente gettando su carta il manoscritto dell’Apologia della storia, che rimase incompiuta e fu pubblicata postuma da Febvre con alcuni ritocchi. L’autore aveva dovuto nascondersi, perché ebreo, sotto il regime di Vichy, e del resto era ben nota la sua avversione all’hitlerismo razzista. Divenuto nel 1943 uno dei comandanti della cintura lionese della Resistenza, fu arrestato dalla Gestapo nel 1944 e fucilato il 16 giugno. Come ricorda Le Goff nella sua Prefazione all’Apologia della storia, Bloch “Fu una delle vittime di Klaus Barbie”. Durante tutta la guerra Febvre, rimasto a Parigi, volle con tutti i mezzi possibili mantenere in vita le Annales, la cui periodicità era divenuta, per forza di cose, saltuaria. Come abbiamo già ricordato, nel 1946 i fascicoli ricominciarono ad apparire sotto un nuovo nome, Annales. Economies-Sociétés-Civilisations, redatti dal solo Febvre. Terminata la guerra, la storiografia francese riprese con nuovo vigore, tanto che la pubblicazione, nel 1949, del libro di F. Braudel, Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo all’epoca di Filippo II, costituì allora un avvenimento eccezionale. Basti pensare che la sua elaborazione richiese circa quindici anni e che grazie a questo lavoro Braudel venne riconosciuto come uno degli storici più importanti d’Europa, a causa delle novità impellenti del suo lavoro, il quale invertiva volontariamente l’importanza dell’oggetto studiato, il Mediterraneo, a scapito della figura individuale di Filippo II, e per la scansione triadica del tempo storico, concetto problematico di cui si parlerà più avanti.[/ref] ruotando intorno alle figure di Febvre e Braudel e ad una grande istituzione di ricerca fondata nel 1947: la VI sezione dell’École pratique des hautes études, istituzione attraverso cui i due condirettori riescono ad affermare il movimento delle Annales anche in ambito accademico. Il terzo periodo invece ha inizio nel 1968 e ruota intorno alla figura di Jacques Le Goff il quale assume la direzione della rivista dando così inizio al periodo della cosiddetta antropologia storica.

Nonostante questa scansione in tre periodi caratterizzati da diversi indirizzi, giudicati solo apparentemente divergenti e in parte contraddittori, la Scuola delle Annales è stata considerata complessivamente una vera e propria svolta rispetto alla storiografia dell’Ottocento, la quale, a sua volta, declinava i propri parametri di analisi intorno a due grandi correnti contrapposte: lo storicismo romantico e idealista da una parte e il positivismo dall’altro, ambedue considerati mali profondamente radicati nel metodo d’indagine, da emendare con tutte le forze possibili. Nella storiografia ottocentesca il fenomeno storico era vissuto infatti come fare politico in senso pressoché esclusivo. Questa impostazione, probabilmente derivata dal sorgere, attraverso i moti rivoluzionari di ispirazione romantica, del concetto di nazione, permetteva ai nuovi storici di accusare la storiografia romantica di un certo descrittivismo astratto e sistematizzante: essa non faceva altro che scrivere la storia degli Stati  [ref]Chabod si occuperà del concetto di nazione in una serie di lezioni tenute all’università Statale di Milano nell’anno accademico 1943-1944 e poi raccolte e pubblicate a cura di A. Saitta e E. Sestan (L’idea di nazione, Roma – Bari 1961). Lo storico valdostano si era occupato, fin dal decennio precedente, dell’idea d’Europa dal punto di vista del divenire storico della coscienza europea e dello svolgersi dell’idea di nazione, proprio in quegli anni in cui la sua degenerazione in nazionalismo si era resa evidente in seguito al tragico accadimento delle due Guerre Mondiali.[/ref] e così si imperniava intorno a un individualismo particolaristico che non consentirebbe analisi di più vasto respiro. Dall’altra parte si ergeva tuttavia il possente muro del positivismo, contro la cui “metafisica del fatto” le Annales si opporranno sempre fermamente, nella concezione del fatto che permane inerte senza l’intervento interpretativo dello storico e nella convinzione che il lavoro dello storico consista nel porre delle domande alle testimonianze in una considerazione della storia come problema e ricerca. Il tentativo di superare il descrittivismo elencativo positivista e la semplice erudizione ottocentesca doveva, per gli annalisti, farsi forte della convinzione che “la storia […] avrà il diritto di rivendicare il suo posto fra le forme di conoscenza veramente degne di sforzo, soltanto se ci prometterà una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice enumerazione senza nessi a quasi senza limiti”; per questo occorre considerare la storia come oggetto di un “lavoro ragionato di analisi” e non come mera “pratica erudita”; l’esigenza era quella di superare, pur riconoscendone il valore, una visione della storia come “scienza dell’evoluzione umana” sorretta da un “ideale pan – scientifico”, che però, contraddittoriamente, escludeva dai suoi orizzonti il residuo delle “numerose realtà umane che apparivano disperatamente ribelli a un sapere razionale” chiamandole sdegnosamente “l’avvenimento”: era questo, secondo Bloch,  l’orientamento della scuola sociologica di Durkheim da rigettare in pieno  [ref]M. Bloch, Apologia della storia, Torino 1970, pp. 28 – 31.[/ref].

La rinascita delle fonti e la decadenza del soggetto

Questa necessità finisce per indirizzare Bloch e Febvre verso un nuovo ruolo dello storico che si assume come compito l’analisi del dato concreto, la ricerca del quid strutturale, l’interpretazione delle fonti le quali però, senza quest’intervento attivo e quasi rabdomantico, rimarrebbero mute. Scriveva infatti Bloch nel 1929: “i documenti restano monotoni ed esangui fino al momento in cui il colpo di bacchetta dell’intuizione storica rende loro l’anima”. Al di là della considerazione di soppiatto che l’argomento dell’intuizione storica è di matrice idealistica, proprio una delle tendenze a cui Les Annales volevano di fatto contrapporsi; esso tuttavia possiede, di vitale e nuovo, questo suo innestarsi indefesso sul lavorio filologico documentario. I documenti che lo storico deve interrogare sono, in effetti, svariatissimi: scritti teologici, medici, giuridici, dissertazioni politiche, atti amministrativi, reperti del folklore, dipinti, incisioni, cronache, chansons de geste. Lo storico prende le fonti, le passa al microscopio, le esamina, rende loro una ragione organica di vasto respiro; una ragione, un ordine razionale che oserei chiamare cartesiano e che cambia semplicemente nome: interpretazione. E’ questa un’idea della storia come percorso articolato da ricostruire in tutta la sua complessità, impostazione di pensiero la cui base culturale e politica è stata senza dubbio la vittoria democratica sul nazifascismo, che ha per ciò attraversato l’intero l’arco della cultura democratica europea dell’inizio del Novecento.

Infatti, come ricorda Ludovico Gatto, “gli avvenimenti legati ai due conflitti mondiali hanno contribuito a sviluppare il cammino e l’evoluzione del pensiero storico europeo”  [ref]Ludovico Gatto (Prefazione a H. Pirenne, Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo, Roma 1991, p. 8) ricorda il valore dell’impegno concreto dello storico e della sua immersione nel presente facendo un riferimento alla figura maestra del professore belga: “Pirenne […] per l’atteggiamento coraggioso e patriottico verso la sua università di cui volle difendere il patrimonio culturale e materiale, nel 1916 venne deportato in Germania. Così fu però anche per Fernand Braudel, durante il secondo conflitto mondiale, tradotto nei campi di prigionia tedeschi di Magonza e Lubecca”. Come si sa, ambedue gli studiosi, per alleviare le sofferenze della prigionia, organizzarono corsi di storia fra i detenuti e scrissero materiale, in quasi totale assenza di documenti e possibilità di ricerca, che sarebbe poi servito ai loro rispettivi capolavori Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo e Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II.[/ref]. Il mestiere di storico, insomma, comporta la dimensione dell’impegno in prima persona nell’intenzione votiva di studiare il passato essendo totalmente coinvolti nel presente, in quella circolarità ermeneutica di presente e passato che è una delle tensioni più forti di chi avverte fortemente il richiamo dell’identità storica; e lo è, aggiungiamo, fin dai tempi, appunto, del romanticismo. Paradosso? Contraddizione? Andiamo avanti. Lo storico, specie secondo Bloch, deve tenere ben presente anche il problema epistemologico della legittimità della storia  [ref]“Papà, spiegami a che serve la storia”. Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia la domanda di quel fanciullo, di cui sul momento non riuscii gran che bene a soddisfare la sete di sapere, la conserverei volentieri qui, come epigrafe. […] Il problema ch’essa pone, con la sconcertante dirittura di quell’età inesorabile, è, né più né meno, quello della legittimità della storia. […] e tuttavia la storia, alla quale ci richiama un’attrattiva quasi universalmente sentita, non potesse dimostrare altrimenti la propria legittimità; se non fosse insomma che un piacevole passatempo, […] meriterebbe davvero la fatica che spendiamo per scriverla? […] O dovremo sconsigliare lo studio della storia agli ingegni suscettibili di un miglior impiego, oppure la storia dovrà dimostrare di avere le carte in regola come conoscenza” (M. Bloch, Apologia della storia, cit., pp. 23-27).[/ref]. Egli sorregge sulle spalle responsabilità morali e civiche nei confronti del percorso della civilizzazione (un percorso lineare? Circolare? Ricorsivo?), e la testimonianza storica stessa ha il ruolo fondamentale del mantenimento della memoria, prerogativa di ogni futura civilizzazione; per cui se è vero da una parte che “la storia non dà giudizi morali”, come afferma Bloch, dall’altra è il suo stesso ruolo nel mondo ad essere dotato di un’intrinseca eticità: la storia non è la scienza del passato, bensì, come scrive Febvre, “è una delle scienze umane” in quanto insieme agli stati, alle nazioni, alle tecniche, alle leggi, alle istituzioni “il suo oggetto è l’Uomo; o, se si preferisce, gli Uomini”  [ref]L. Febvre nel Profilo di Marc Bloch preposto all’edizione parigina dell’Apologia della storia del 1949 nell’ed. italiana a cura di G. Araldi , Torino 1970, p. 5.[/ref].

Ora: sfortunatamente, si evince come la scuola delle Annales abbia voluto porsi, onorevolmente, da una parte a sostegno della presenza dell’Uomo nel pensiero contemporaneo: d’altra parte, tuttavia, in quel suo definirlo come “oggetto”, ben lungi dal restituirgli uno statuto ontologico come motore della storia, ha gettato il cemento su cui si sarebbero impiantate, di lì a poco, le maglie castranti dell’antiumanismo posteriore e dell’archeologia del sapere foucaultiana, così disumanizzante e reificante, con quella pretesa di cogliere i rantoli agonizzanti dell’Uomo morente o gli echi umoristici di un Soggetto storico già deceduto. Di fatto, le cose sono andate così: per la Scuola delle Annales, specialmente da Braudel in poi, gli uomini, i singoli, gli individui, sono cominciati a scomparire, volatizzati, liquefatti in una sorta di dissipatio humani generis, annacquati nella salamoia della storia come “lunga durata” e “larghissimo spazio”: vedremo ora come e perché.

Un sistema aperto e una storiografia eterodiretta dallo storico

Accanto alle preoccupazioni epistemologiche e morali, disattese, di conservazione del ruolo umanistico della disciplina storica, le Annales si facevano anche portavoce della concezione della storia come scienza  [ref]Tuttavia nel 1941 Febvre preferiva una definizione più restrittiva: “qualifico la storia come studio condotto scientificamente e non come scienza” (in J. Le Goff, Storia e memoria, Torino 1982, p. 90).[/ref]: ma, beninteso, nella totale assenza di distinzione di ciò che è storia e ciò che non lo è. Lo storico pone nuove domande alle fonti partendo sempre da un’ipotesi: è la stessa istanza ipotetica a garantire la scientificità dell’indagine storica, una scientificità rinnovata perché messa in discussione dal sorgere del probabilismo scientifico e filosofico di inizio secolo  [ref]Stiamo parlando di tutta la rivoluzione di pensiero recata da Einstein, Heisenberg, Goedel, dalla  fisica quantistica, dalle geometrie non euclidee. Questa rivoluzione relativista comportò una nuova concezione di scientificità non più assiomatico – descrittivo – elencativa in senso aristotelico, bensì fondata sul metodo analitico e sulla logica dei sistemi aperti.  Queste tematiche si possono approfondire da un punto di vista logico – matematico e logico – formale in C. Cellucci, Le ragioni della logica, Roma – Bari 2000.[/ref], ma riaffermata fortemente dal richiamo al metodo analitico e alla concezione della storia come sistema aperto: la sostituzione del “certo” con l’“infinitamente probabile”, del “rigorosamente misurabile” con l’“eterna relatività della misura” porta anche lo storico a “concepire la certezza e l’universalità come un problema di gradi”  [ref]M. Bloch, op. cit. p. 33.[/ref].

L’assunto, come si vede, lungi dal superare le istanze positivistiche, ne accoglieva in pieno la metodologia, rigettandone solo la concezione lineare del progresso, per intortarla, avvitarla, aggrovigliarla in un nesso wittgensteiniano di somiglianze e differenze, dove ogni particolare si imparenta con qualsiasi altro e pertiene, in qualche modo,  all’interpretazione storica del tutto globale. Quest’intortamento, quest’avvitamento, questo critico e criteriale scriteriamento del concetto positivista di progresso lineare, in virtù della messa in dubbio e dell’epoké scientifica del principio di Heinsenberg, fa sì che tutto faccia brodo nel calderone della storia. Ma ne mette in dubbio, a ben vedere, la stessa osservabilità dei fenomeni storici, la loro non più intrinseca possibilità d’essere analizzati con fondamenti scientifici certi. E tuttavia, l’apoditticità di qualsiasi assunto definitorio preliminare, pur tuttavia come sempre necessario per rendere intellegibile il “che cos’è” delle vicende storiche e la loro stessa interpretazione dal di fuori, evidenza la sinuosità di un circolo vizioso, il modus operandi di un’epistemologia storica in cui ci si trova a giustificare l’ipotesi parziale assunta piegando il fatto stesso alla sua conferma; se ciò non può essere fatto a priori, lo si faccia almeno a posteriori.

La metodologia ermeneutica delle Annales potrebbe in questo senso venire definita come una storiografia eterodiretta dallo storico in quanto tale, rabdomante e demiurgico semiologo della forma e della sostanza delle fonti, sezionate ed analizzate per rivelare verità che solo lui sa leggere. Quest’ermeneutica del fatto inerte e dello Spirito Santo che scende a ravvivarlo avvia così lo studio di tutto ciò che risulti in qualche modo passibile di essere storicizzato: dalle tecniche, dalle credenze alle mentalità affiancate fin dagli esordi da una forte istanza comparatista  [ref]Fondamentale in tal senso è l’articolo di M. Bloch pubblicato nel 1928 sulla Revue de synthèse historique dal titolo Pour une historie comparée des sociétés européennes.[/ref]. La scientificità della storiografia delle Annales è anche riaffermata dai suoi mentori nei suoi nessi stretti con alcune delle nuove scienze di inizio secolo: lo strutturalismo determina la concezione che il significato di un evento storico sia dato dai rapporti reciproci strutturali con gli eventi coevi  [ref]Se problematico è il rapporto con lo strutturalismo di Lévi – Strauss, accusato spesso di a – storicismo, tuttavia, come scrive Le Goff, Storia e memoria, cit., p. 124: “lo strutturalismo genetico e dinamico dell’epistemologo e psicologo svizzero Jean Piaget, secondo il quale le strutture sono intrinsecamente evolutive” si presta bene ad appoggiare la concezione storiografica delle Annales.[/ref]; la psicanalisi influenza la ricerca sulle mentalità collettive e sugli archetipi, nella riflessione della memoria come fondata su una comune identità, impostazione già tipica del Berr, fondatore della psicologia storica. Infine, la concezione del tempo storico viene rivoluzionata soprattutto da Fernand Braudel, il quale polemizza con la storia tradizionale di superficie, la cosiddetta storia événementielle, basata sugli avvenimenti politici più esteriori e visibili, la quale d’ora in poi viene confinata definitivamente in un ruolo subalterno a vantaggio di un modello di ricerca strutturale e funzionale fondato su uno stretto rapporto fra storia e tempo. “La storiografia tradizionale”, dirà Braudel, “interessata ai ritmi brevi del tempo, all’individuo, all’évenement, ci ha abituati da tempo al suo racconto frettoloso, drammatico, di breve respiro. La nuova storiografia economica e sociale pone invece al primo posto le oscillazioni cicliche e punta sulla validità delle loro durate”  [ref]F. Braudel, La storia e altre scienze sociali, Bari, 1973.[/ref].

Il tempo storico e la “lunga durata”

Quando Braudel, nel suo famoso articolo del 1958 sulla “lunga durata”, delinea la scomposizione della storia in tre piani digradanti, il “tempo geografico”, il “tempo sociale”, il “tempo individuale” (all’interno del quale viene relegato l’évenémentiel), diviene evidente il nesso con la filosofia di Henri Bergson. Infatti “per la meccanica, il tempo è puramente una serie di istanti che si susseguono in un ben determinato ordine lineare: passato, presente e futuro; per la realtà della coscienza, il tempo è invece qualcosa di irriducibile a una successione di istanti, è durata, è un flusso continuo i cui momenti si compenetrano a vicenda, senza poter venire separati l’uno dall’altro”  [ref]L. Geymonat, Immagini dell’uomo, Milano 1990, pp. 464 – 465.[/ref]. La concezione meccanicistica del tempo è sicuramente, per Bergson, fornita di un certo grado di verità pratica, nel permettere lo studio dei fenomeni del mondo inorganico tramite una sorta di “esteriorizzazione del tempo”. Tuttavia, è solo il tempo della coscienza, esclusivamente all’interno della quale esistono passato e futuro, a recare in sé il senso della durata o tempo vissuto, e solo al suo interno è possibile una considerazione globale e veramente razionale degli eventi. L’idea bergsoniana della durata rielaborata e ripresa da Braudel ha dei riflessi metodologici, etici ed epistemologici di importanza fondamentale. L’idea catastrofista, a quel tempo dominante, espressa nel famoso libro di O. Spengler Il declino dell’occidente, apparso all’indomani della disfatta tedesca del 1918, fu contrastata da Braudel proprio attraverso la sua concezione della “lunga durata”, dimostrando insomma che dalle crisi più acute, quelle degli imperi mediterranei analizzati in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II,  quasi sempre sorgono nuove imponenti civiltà. L’allargamento non solo alla lunga durata ma anche al largo spazio fu lo spirito del suo secondo importante libro, Civilizzazione materiale e capitalismo, il cui primo volume apparve nel 1967, e all’interno del quale l’autore “descrive la maniera con la quale i grandi equilibri economici, i circuiti di scambi creavano e modificavano la trama della vita biologica e sociale, la maniera con la quale, per esempio, il gusto si abituava ad un prodotto alimentare nuovo”  [ref]Burguière cit. in J. Le Goff, op. cit., p. 116.[/ref]. Braudel aveva speso progressivamente quasi sessant’anni di vita studiando una mole infinita di dati sulla vita quotidiana, materiale, degli uomini, dall’alimentazione all’abitazione, dalle fonti energetiche alle vie di comunicazione, dai mezzi di trasporto alla circolazione del denaro, abbandonando giocoforza l’europocentrismo ottocentesco ed allargando il perimetro geografico dell’indagine storiografica anche a continenti tematicamente quasi inesplorati: l’Asia, l’Africa, l’America. Tuttavia, in Civilizzazione materiale e capitalismo, si rende evidente anche un limite di fondo della concezione braudeliana della “lunga durata”, la quale resta troppo vaga e indeterminata, inapplicabile come è al contesto storico se prelevata dall’assunto bergsoniano, che prendeva a sua volta le mosse da un basamento percettivo individualistico ed affettivo, rischiando così di condannare a una semi-paralisi la storia dell’uomo in rapporto al suo ambiente specifico. Per superare l’empasse, Braudel avrebbe dovuto fare, in base alla sua ottica, di peggio: volendo tenere fermo un genuino bergsonismo, avrebbe dovuto relegare la storia dell’uomo nell’angusta cella di uno psicologismo individualistico già precedentemente rinnegato e dato per morto, particolarismo che nulla avrebbe a che fare, secondo gli annalisti, con la Storia in quanto tale  [ref]Come si legge in un interessante saggio sulla storiografia francese del Novecento pubblicato sulla rivista telematica Homolaicus. Materiali di Umanesimo Laico e Socialismo Democratico a cura di Enrico Galavotti, “anzitutto Braudel separa la civilizzazione materiale dalla vita economica produttiva e dal capitalismo. La prima, a suo giudizio, è fatto di routine, è una vita elementare, vegetativa, che non si presta, se non con molta difficoltà, al mutamento, è dunque una realtà di “lunga durata”. La vita economica invece gli appare come uno stadio superiore, privilegiato, della vita quotidiana. Il capitalismo poi è uno stadio ancora più elevato, più sofisticato. In sostanza sfuggiva a Braudel il fatto che il capitalismo s’afferma proprio sulla base delle forme più elementari dei rapporti mercantili, giungendo in diretto antagonismo con altri tipi dominanti di economia”. Questa prerogativa affidata alla lunga durata porterebbe insomma Braudel ad una incomprensione dei fenomeni localizzati in spazi e tempi circoscritti, causando l’inapplicabilità degli stessi agli eventi di spessore superiore.[/ref]. Ma non lo fece.

Uno dei punti deboli della concezione storiografica del secondo periodo delle Annales, insomma, è questo suo guardare i fenomeni di lunga persistenza tramite l’analisi della ripetitività e ciclicità degli eventi ma trascurando i particolari storici, la cosiddetta microstoria, che tuttavia incalzava per avere nuova voce in capitolo. La concezione della “lunga durata” si fondò anche sul richiamo all’etnologia e all’antropologia culturale, ad una specie di metafisica umanistica strutturale e sovrastrutturale insomma, dando vita ad una storia “più analitica, dedita a rintracciare l’itinerario e i progressi della civiltà”, non deterministicamente bensì interessandosi “ai destini collettivi più che agli individui, all’evoluzione delle società più che alle istituzioni, agli usi più che agli avvenimenti” contro l’altra concezione “più narrativa, più vicina ai luoghi del potere politico”, che abbraccia i grandi cronisti medievali come anche gli eruditi del XVII secolo e “la storia événementielle e positivista che trionfa alla fine del secolo XIX”  [ref]J. Le Goff, op. cit., p. 116, cita un articolo di Burguière pubblicato all’interno del supplemento del 1980 alla Encyclopaedia Universalis.[/ref]. Prendono così piede altri campi di indagine come la storia dell’alimentazione, della sessualità e della famiglia, delle donne, la demografia storica (anche tramite l’utilizzo di fonti massicce come i registri parrocchiali), e con essa la storia dell’infanzia, la storia della morte come campo maggiormente fecondo all’interno dell’indagine già avviata da Bloch sulle mentalità: moltiplicazione dei pani e dei pesci di cui si ciberanno gli strutturalisti e i post – strutturalisti francesi del Novecento, in una frantumazione prismatica di temi e problemi che non permette alcuna visione sistematica se non nell’astraente sguardo esterno dello scienziato – interprete e che, proprio per questo, ricade in quel sostrato narrativo, unico modus unificante possibile al discorso storico, sebbene precedentemente rinnegato, il quale si instaura sul fondale scientifico della ricerca filologica.

Un impianto possente e contradditorio

A questo punto è d’obbligo tirare brevemente le somme sulle grandi avversioni, sui grandi rifiuti operati dalla Scuola delle Annales. Tale possente e contraddittorio impianto di indagine storiografica, attraverso le sue varie fasi e i suoi percorsi decennali, porta in sé il messaggio del rifiuto di una storia idealista in cui le idee si genererebbero per partenogenesi come nelle vecchie e muffite impostazioni delle varie filosofie della storia, ed anche l’avversione alla concezione della storia come semplice progresso lineare oppure, in tertiis, di una storia che interpreterebbe il passato sulla base esclusiva dei valori del presente a rischio di incomprensioni profonde del fatto storico; atteggiamento presentista, quest’ultimo, che peraltro non può essere assolutamente evitato dagli stessi annalisti, proprio ed in quanto si pongono ipotesi preliminari, le quali, inevitabilmente, pertengono sempre all’ottica e alla forma mentis di colui che, qui ed ora, si pone il problema, formulandone la domanda. Accanto a queste difficoltà  ermeneutiche ed epistemologiche di fondo, che spesso inficiano il momento stesso dell’approccio storiografico e la sua validità metodologica, l’apertura alla considerazione quantitativa delle fonti, che oggi ha fornito lo storiografo di un nuovo capitale strumento di comparazione e di indagine (il computer) ma che era già implicita nell’uso già blochiano della scienza statistica a fini storici, può essere considerata come un’altra delle eredità piuttosto valide che la Scuola delle Annales ha lasciato a chi voglia oggi occuparsi di storia e storiografia. La parte migliore della prospettiva storiografica delle Annales risiede infatti in quell’istanza critica che si sforza di comprendere, nonostante ed oltre i rigetti, l’avvenimento e il grande evento, la dimensione collettiva e la storia dell’individuo, attraverso l’utilizzo di tutti i materiali possibili (anche la massa immensa delle testimonianze non scritte, in primis quelle archeologiche). In fondo, ai fini della comprensione storica, non è stato tanto importante il rifiuto dell’individuo come base d’indagine, ed anzi, da alcuni storiografi pietosi, egli è stato poi riammesso benevolmente a corte.

Il vero inghippo del sistema analitico ed interpretativo delle Annales, invece, sta nel considerare logicamente veri, oltre che validi, due assunti di per sé perfettamente legittimi: il primo, che i documenti “non parlano se non quando si sa interrogarli”; il secondo, che “ogni ricerca storica suppone che, fin dai primi passi, l’inchiesta abbia una direzione”. Bloch ricalca qui l’istanza scientifica di Henri Poincaré, sostenitore in tempi moderni del metodo analitico, perfettamente funzionante nelle scienze matematiche e sperimentali, in base al quale ogni scoperta scientifica si produce a partire da un’ipotesi preliminare. Ma tale metodo può essere applicato ad una dimensione come quella storica, non riproducibile in laboratorio a piacimento e, dunque, non soggetta ad indici di verificabilità o falsificabilità? Ma allora, chi può dirsi investito della capacità medianica dell’interpretazione corretta ed univoca delle fonti storiche? Non si corre continuamente il pericolo, esso sì, non storiografico, bensì filosofico, di piegare le fonti stesse alla conferma eterodiretta di questa stessa interpretazione? Ciò che di fatto è accaduto, relativamente alle Annales, è stato lo strutturarsi di un metodo storiografico scandito nelle sue quattro fasi fondamentali che ricalcano la pratica professionale quotidiana: “l’osservazione storica”, “la critica”, “l’esperienza storica” e “la spiegazione in storia”  [ref]Si tratta dei titoli di quattro fondamentali capitoli dell’Apologia della storia di Bloch, carichi di una forte istanza metodologica e sottoposti di recente ai dovuti rimaneggiamenti della nuova edizione filologica curata dal figlio Etienne.[/ref]. La metodologia di ricerca delle Annales concepisce la storia non come storia del passato, bensì come scelta, ed ogni scelta presuppone un’ipotesi ed una linea di indagine nel tempo, all’interno della quale bandire l’errore metafisico della “causa unica”; empasse che tuttavia, a discapito di qualsiasi previsione, non fa che riprodursi all’infinito, individuando non più “la causa”, ma “le cause”, ipoteticamente enunciate, di un sistema problematico di eventi da verificare o falsificare. Per questo la storia è soprattutto “storia degli uomini nel tempo”. Ma gli uomini che cosa sono? Ed il tempo, soprattutto, che cosa è?

E il tempo che cosa è?

Succede, ben presto, che nella Scuola delle Annales il tempo della storia venga ricompreso fra la “lunga durata” di Braudel e quella sorta di cristallizzazione temporale che Bloch invece chiamerà “il momento” piuttosto che l’avvenimento, nella convinzione che il tempo della storia sfugga ad ogni uniformità. Scrive infatti Bloch: “il tempo umano […] sarà sempre ribelle sia all’implacabile uniformità che alla rigida ripartizione del tempo dell’orologio. Gli occorrono misure che siano adeguate alla variabilità del suo ritmo e che accettino spesso di non riconoscere come limiti, poiché la realtà vuole così, che zone marginali. Solo a prezzo di questa plasticità la storia può sperare di adattare, secondo il detto di Bergson, le proprie classificazioni alle “linee stesse del reale”: il che è, propriamente, il fine ultimo di ogni scienza”  [ref]M. Bloch, Apologia, cit., p. 137.[/ref]. Questa concezione del tempo rinnega l’ “idolo delle origini” e l’ “ossessione embriogenetica”: si tratta sia di superare la prospettiva antiquaria, totalmente chiusa al presente, sia di strutturare un’istanza critica che viva sulla base dell’avversione al filosofismo storico a tutti i costi, in senso hegeliano quanto comtiano: non per niente Bloch confesserà nell’Apologia di non avere la testa del filosofo avvertendo umilmente in questo “una lacuna nella sua formazione di base”. Tutt’al più, quanto a filosofia, la Scuola delle Annales preferisce di gran lunga la tradizione scettico – critica del discorso sul metodo alla sistematicità ordinatrice della filosofia della storia. Un discorso sul metodo su come condurre rettamente la Ragione, e ricercare la Verità nelle scienze: non per niente è nata in Francia. Sembra una discesa all’inferno, un regressus ad finitum, dal Sistema hegeliano a ritroso verso Cartesio, verso le ipostasi della ragione contemporanea, bypassando, e per questo salvando molto di buono nel proprio impianto epistemologico, il nichilismo nietzscheano, che invece ammorberà parecchi compatrioti afflitti dalla morte dell’Homme; entità edulcorata dall’idea di se stessa, forse, ma che per Bloch, almeno, aveva ancora una propria validità e verità in carne ed ossa, anche se oggettuale, anche se già corporeizzata ante – litteram. Infatti, come negarlo: i  pericoli del  nuovo nichilismo di lì a poco sarebbero comparsi all’orizzonte, ignorando che l’uomo non è ancora un cadavere sul tavolo del vivisezionatore strutturalista o del becchino decostruzionista: egli è, forse, una bestia che si presta al macello, ma ancora viva e vegeta, bella grassa e, soprattutto, in salute.

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